Amicizie, determinazione, disperazione, fortuna, illusione, sacche di antinazismo, soldi, speranza, vigore, questo è ciò che occorreva alle persone classificate “di razza ebraica” per uscire clandestinamente nel 1942-1943 dal Terzo Reich nazista ed entrare clandestinamente nel Regno d’Italia fascista.

La loro situazione era ulteriormente peggiorata dall’ottobre 1941, a seguito della definitiva chiusura delle pur labili possibilità di emigrazione e con un primo gruppo di deportazioni “all’est”. Anche nelle terre polacche e ucraine occupate, alcuni (pochissimi) valutarono di fuggire massacri e deportazioni dirigendosi clandestinamente verso l’Italia, con un tragitto che attraversava il territorio del Reich.

L’Italia poteva essere presa in considerazione (anche solo come luogo di transito) perché la sua pur rigida politica antiebraica non comprendeva, nell’autunno 1941 e fino all’estate 1943, massacri e deportazioni. Comunque nella primavera 1940 il ministero dell’Interno (retto dallo stesso Benito Mussolini) aveva definitivamente vietato ogni ingresso legale di ebrei tedeschi o provenienti dal Terzo Reich; pertanto i passaggi frontalieri di cui qui si parla dovevano svolgersi in modo totalmente clandestino.

La ricerca insufficiente

Non vi sono dati neanche per coloro che raggiunsero materialmente il territorio italiano; la mia stima, fortemente provvisoria, è che furono poche decine. Di essi, alcuni furono respinti dopo poche ore o qualche mese, altri furono ammessi a rimanere (qualcuno fu però deportato dopo l’8 settembre 1943), pochissimi restarono clandestini fino alla Liberazione.

Su tutta questa vicenda non vi è sufficiente ricerca storica, a causa della generale scarsità di interesse nostrale per questo impegno storiografico, specialmente in ambito accademico. Molti ritengono che lo studio della Shoah possa essere sufficientemente sostituito da una dose annuale di pronunciamenti retorici.

Così, anche le storie individuali di questi clandestini giacciono semisepolte nelle carte d’archivio. Nelle righe seguenti ne tratteggio alcune.

Le storie personali

Il 27 ottobre 1942, al Brennero, i carabinieri scoprirono tre ebrei polacchi di 23-24 anni, di Siedlce: Heve Hava (o Herz Kawa), Hersz Isaak Liwerant (Liverant) e Michel Mozke Nelkenbaum, nascosti in una tradotta che rientrava “vuota”, cioè senza militari italiani. I tre fecero mettere a verbale che in caso di rientro in Germania o in Polonia sarebbero stati “uccisi”.

Il prefetto di Bolzano propose al Ministero dell’Interno di consegnarli alla polizia tedesca. Per ciascuno di essi è conservata nell’Archivio centrale dello Stato una bozza manoscritta di risposta del Ministero con scritto «Autorizzasi consegna polizia germanica»; l’11 e 12 novembre il procedimento fu “sospeso” e pochi giorni dopo i tre furono destinati al campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, in Calabria.

Lì essi, come è noto, costituirono una preziosa e dolorosa fonte di informazioni dirette sullo sterminio in atto in Polonia; vi rimasero fino alla Liberazione.

Anche Günter (Franco) Steinitz, venticinquenne, di Berlino, interprete presso una ditta italiana in quella città, aveva raggiunto il confine del Brennero in treno, l’1 o 2 maggio 1942. Aveva un falso documento italiano e viaggiava con un gruppo di operai rientranti nella penisola, e non fu fermato al controllo frontaliero.

Si recò a Rimini, dove apparentemente abitava uno dei suoi soccorritori; vi rimase clandestino fino alla fine del mese, quando un delatore lo segnalò alla questura. Nell’interrogatorio dichiarò di essere fuggito perché in Germania gli ebrei erano «obbligati a morire di fame o mandati alla fucilazione».

L’arresto fu comunicato a Roma. L’ufficio centrale della polizia italiana diretto da Raffaele Alianello, informò il suo omologo tedesco a Roma, Herbert Kappler, dell’ingresso clandestino dell’ebreo tedesco, chiedendogli «se nulla vi sia in contrario a che sia respinto in Germania attraverso la frontiera di provenienza».

Le carte dell’ufficio centrale italiano (già segnalate da Klaus Voigt nel libro Il rifugio precario) documentano che Kappler acconsentì, Il 1 novembre il prefetto di Forlì lo fece condurre al Brennero “per la consegna”. Il 9 dicembre 1942 Steinitz fu deportato da Berlino ad Auschwitz.

ANSA

Czarke (Clara) Waller, nata nel 1899, vedova, e il figlio quattordicenne entrarono clandestinamente in Italia il 16 marzo 1942. Nell’interrogatorio della polizia italiana, la donna affermò che avevano effettuato in treno il percorso Zablotow (vicino al fiume Prut), Berlino-Monaco-Salzburg, Dobbiaco, Calalzo-Treviso-Mestre. Furono fermati dalla polizia a Mestre.

La donna dichiarò che voleva raggiungere la figlia diciottenne Taube (Tilla) Nagler, che si trovava con altri giovani ebrei nella zona di Lubiana annessa all’Italia nel 1941. Da Roma fu deciso di destinarli a Ferramonti, dove arrivarono il 18 aprile. Nella primavera 1943 la polizia italiana decise che Waller e altre due persone con vicende similari dovevano essere portate a San Candido, per fornire alla polizia di lì dettagli precisi sul passaggio clandestino.

Temendo il peggio, lei riuscì ad allertare il nunzio della Santa Sede in Italia, come documentato anche nell’Archivio Apostolico Vaticano. Il nunzio interpellò il capo della polizia, che il 6 maggio 1943 rispose che sarebbe stata accompagnata a San Candido solo per essere interrogata in loco, e «non per essere consegnata alle autorità tedesche di frontiera». Così, quale che fosse l’intenzione originaria, la donna fu portata in Val Pusteria il 25 maggio e riportata a Ferramonti il 4 giugno.

Anche le sorelle Irene e Kornelia Sputz risalirono la valle della Drava e raggiunsero San Candido, il 25 aprile 1942. Avevano poco meno di sessanta e cinquanta anni, abitavano a Vienna ed erano rispettivamente apolide ex-cecoslovacca e tedesca.

Come ricostruito da Martin Kofler nel 1997 sulla rivista “Storia e Regione / Geschichte und Region", il transito clandestino era stato subito scoperto dalla polizia tedesca di Sillian, che ne informò la polizia italiana in loco, chiedendo la riconsegna delle fuggiasche. Il fascicolo dell’Archivio centrale dello Stato documenta che nel frattempo le donne erano salite sul treno per Fortezza, dove la linea della Val Pusteria incrocia quella Bolzano-Brennero, e che furono arrestate dai carabinieri in quella stazione e portate nel carcere di Monguelfo.

Nell’interrogatorio di polizia, Irene disse: «Non sono disposta a ritornare in Germania perché sicura di perdere la vita data la persecuzione della nostra razza. Desidero di essere avviata a Milano presso il comitato ebraico presso il quale avrò un aiuto per proseguire poi per l’America»; anche la sorella rispose in questo modo.

Il 4 maggio il prefetto di Bolzano inviò gli interrogatori al Ministero, proponendo la loro consegna alla polizia alleata richiedente; il 13 maggio il capo della polizia Carmine Senise, firmando “pel ministro”, rispose: «Autorizzasi disporre allontanamento Regno». Il 23 il prefetto riferì: «sono state allontanate dal Regno il 16 c.m. e consegnate alla Polizia germanica del valico di San Candido». Il 17 agosto 1942 le sorelle Sputz furono deportate da Vienna al centro di sterminio di Maly Trostenets, vicino a Minsk.

L’identità dei respinti

Queste e altre vicissitudini personali sembrano indicare che i respingimenti riguardarono maggiormente (ma non solo) gli uomini di cittadinanza tedesca e che gli accoglimenti riguardarono innanzitutto (ma non solo) le donne non tedesche con minorenni; ma si tratta di ipotesi da verificare tramite le auspicate ricerche.

Peraltro va tenuto presente che in quegli anni e in quei territori, per gli ebrei non uccisi, ogni condizione era caratterizzata dalla provvisorietà, compresi gli accoglimenti dell’Italia fascista.

Da ultimo va osservato che mentre una compiuta ricerca storica richiede tempi complessi, la memoria delle vittime richiede – a mio parere – che qualcuno si assuma la responsabilità della loro ultima presenza in territorio italiano e che magari apponga delle pietre nei punti ove la loro fuga clandestina è “inciampata”.

Dipendesse da me, poi, intitolerei alle due sorelle quegli ultimi sessantacinque chilometri di linea ferroviaria che esse percorsero purtroppo invano. 

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