L’opera della scrittrice cubana spiega come la scrittura diaristica sia un modo per le donne per affermare il proprio diritto a passare del tempo in solitudine, diventando un mezzo di autocoscienza ed emancipazione
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Il mio primo diario l’ho cominciato a scrivere per dispetto. Avevo da poco imparato a leggere, quando ho scoperto che la pila di quaderni che mia madre teneva conservata in un armadio aveva poco o nulla a che fare con il suo lavoro. Ero abituata a vederla china su quelle pagine la sera, alla luce gialla della lampada, e la pensavo indaffarata nei preparativi di una lezione, mentre in realtà, dopo una lunga giornata, lei non stava facendo altro che ritagliarsi del tempo per sé.
L’ipotesi che esistesse una parte di lei a me del tutto ignota, che non mi riguardasse, rappresentava un tradimento che non ero pronta ad accettare. Nel silenzio della nostra casa, che cosa diventava da sola mia madre dentro quelle pagine? Alla prima occasione, di nascosto, mi spinsi a leggere le prime righe di uno dei suoi quaderni, poi di un altro, più volte. Parlava delle sue colleghe, degli alunni di scuola, di un film che aveva visto con le amiche. Era divertente, a volte malinconica, non capivo mai bene perché. Negli anni mi sono sempre fermata sulla soglia di quei taccuini, chissà se per una forma di pudore, per una certa vigliaccheria, o per entrambe le cose. In verità avevo paura di scoprire in lei una persona diversa da quella che io conoscevo, la donna che fino a quel momento avevo immaginato vivere per me e solo per me - la mia mamma - ma che dentro quei quaderni si firmava col suo nome, un nome che io non pronunciavo mai.
È così che ho preso a imitarla: per ripicca. Anche io avrei reclamato uno spazio mio e mio soltanto, uno spazio che le avrei tenuto segreto.
Intorno ai vent’anni, studiando per un esame universitario, ho incontrato per la prima volta Quaderno proibito di Alba de Céspedes: quando l’ho letto non ho potuto fare a meno di pensare ai taccuini di mia madre e dare un senso alla mia ingenua gelosia. Il romanzo, pubblicato nel 1952, ora negli Oscar Mondadori, usa la forma diario per riportare un racconto di finzione, ma al pari di un saggio analizza le necessità più profonde della scrittura privata nella vita delle donne. La storia è narrata in prima persona da Valeria Cossati, impiegata d’ufficio, moglie e madre di due figli, che una domenica mattina in tabaccheria compra un quaderno e di nascosto dalla famiglia comincia a registrarci sopra i propri pensieri.
Nonostante il profondo senso di colpa, giorno dopo giorno, la protagonista impara a fare i conti con le proprie contraddizioni e a interrogare il proprio desiderio come mai aveva osato fare prima. Perché il suo diario – come tutti i nostri diari – è soprattutto questo: molto più che ricettacolo di memoria, rappresenta lo specchio su cui proiettare i desideri, esplorarne le ragioni profonde e intravedere possibilità future. Chi amiamo, anche solo per poco tempo, e chi vogliamo essere. Non in ultimo, il diario permette di esercitare un diritto che mai deve essere dato per scontato – specialmente nella vita di una donna – ovvero quello di poter passare del tempo in solitudine.
Durante lo scorso Salone del Mobile, a Milano, il Circolo Filologico Milanese ha ospitato il Miu Miu Literary Club, uno spazio di confronto sull’eredità di Alba de Céspedes e Sibilla Aleramo, entrambe attente osservatrici della condizione delle donne del loro tempo. In quella occasione, riflettendo su un’opera come Quaderno proibito, la scrittrice premio Pulitzer Jhumpa Lahiri ha paragonato il romanzo di de Céspedes al celebre saggio Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf.
Mi è sembrato un accostamento molto calzante. I due libri, seppure appartenenti a generi diversi – un romanzo e un saggio – sono due opere affini per la potenza con cui la protagonista del primo afferma il proprio diritto a tenere un diario, e insieme a esso anche uno spazio e del tempo da dedicare solo a sé stessa, spogliata finalmente dei ruoli sociali che le sono stati assegnati. Se è vero che nasciamo dentro al linguaggio, grazie al diario ci muoviamo nelle parole e con le parole affinché aderiscano su di noi a tal punto da diventare la nostra voce; ed è in questo modo che la scrittura privata diventa mezzo di autocoscienza ed emancipazione.
Per una scrittrice come de Céspedes, la forma diario costituisce il simbolo centrale di un pensiero femminista europeo che assorbe non solo l’esperienza di Woolf, ma anche quella di de Beauvoir, con la quale era in stretto contatto e che aveva incontrato in diverse occasioni nel corso degli anni Cinquanta. Cercando negli archivi digitali, è possibile trovare una foto delle due intellettuali sedute sui divani dell’Hotel Excelsior a Roma, nel 1956. Nella scena Alba ascolta la collega con attenzione, l’iconica sigaretta tenuta tra le dita: la pensatrice francese è tra le voci contemporanee che ammira di più, capace come nessun altro di costruire personaggi femminili che spiccano per “libertà spirituale”.
Questo che le vede insieme si tratta forse di uno scatto rubato nel corso di un’intervista o di una conversazione che dopo qualche giorno sarebbe stata raccontata su «Epoca» corredata da un ampio servizio fotografico. Per il periodico, de Céspedes curava regolarmente la rubrica Diario di una scrittrice, un altro dei tanti diari di cui si popola la sua vita, questa volta non finzionale, certo, ma neanche privato. Dal 1958 al 1960 l’autrice di Quaderno proibito affida il suo sguardo alle colonne del settimanale per provare a comprendere in presa diretta un periodo storico di grandi cambiamenti come quello del secondo dopoguerra.
È proprio in una delle puntate di questo diario pubblico – in data 28 gennaio 1959 – che possiamo trovare una delle definizioni più belle che Alba de Céspedes abbia mai dedicato alla scrittura intesa come spazio tutto per sé: «Il diario, spesso, è una giustificazione dei nostri atti, oppure un’accusa a qualcuno o qualcosa che a nostro parere ci opprime», ma è anche «un atto d’amore per noi stessi, una prova di egocentrismo che gli estranei non possono perdonarci». Quando le chiedevano se avrebbe mai pubblicato i suoi diari, la scrittrice rispondeva con riluttanza. «Spero di resistere alla tentazione di pubblicare sia pure una sola pagina del diario finché sono in vita. Al morto si perdona ciò che è difficile perdonare da vivo, perché sembra naturale perdonare, a quelli che ormai non vivono più, di aver tanto amato la propria vita».
Si dice molto dei diari della scrittrice. Che li scrivesse di notte, per esempio, lontana dalle faccende domestiche e da altre distrazioni, e che continuasse a correggerli anche ad anni di distanza, con l’obiettivo di afferrare la forma migliore di certi pensieri a cui non credeva di aver reso giustizia. L’attenzione dedicata a queste scritture ci lascia intendere che non attribuisse loro soltanto un valore informale, ma qualcosa di più. Prima con i diari di guerra e Resistenza, poi con Quaderno proibito, senza dimenticare il diario pubblico su Epoca, per de Céspedes la diaristica si impone come potente strumento di osservazione sul mondo e come atto politico quotidiano. Ancora oggi, infatti, la storia di Valeria racconta alle donne che il proprio spazio tutto per sé può essere trovato nella scrittura e che proprio quello spazio deve essere da loro reclamato come un diritto.
Il Miu Miu Literary Club
La leggenda narra che Miuccia abbia letto sulle pagine di Idee di «Domani» un articolo che avevo chiesto di scrivere a Olga Campofreda sul rilancio internazionale dell'opera di Alba de Céspedes, scrittrice che amo perché era la preferita di mia madre. E che da lì sia nato l'evento più cool del Salone del Mobile. Perché appunto dedicato ai libri e non ai mobili, ma, per testarda figaggine, durante quella settimana. Il Miu Miu Literary Club dedicato all'eredità di Alba de Céspedes e di Sibilla Aleramo, curato da Olga Campofreda, una scrittrice che vive a Londra. Dapprima per due giorni panel di due ore di gran livello, rigorosamente in inglese e senza cuffie che son robe provinciali moderati dalla scrittrice Lou Stoppard e dalla giornalista Zin Tsjeng. Con Jhumpa Lahiri, vincitrice del Premio Pulitzer 2000; Claudia Durastanti, scrittrice italiana finalista al Premio Strega; Sheila Heti, scrittrice acclamata dalla critica; Viola Di Grado, scrittrice italiana vincitrice del Premio Campiello Opera Prima 2011; Selby Wynn Schwartz, selezionata al Booker Prize, e Xiaolu Guo, britannica nata in Cina, romanziera, autrice di memorie e regista (National Book Critics Circle Award 2017). I panel saranno moderati dalla scrittrice e curatrice Lou Stoppard e dall'autrice, presentatrice e giornalista Zin Tsjeng.
E poi festa fino a sera con letture di poesie, musiche e danze internazionali di gran classe, cibi squisiti e vini buonissimi. Tanto che sono io quello sfottuto dai giornali che ha chiesto un bicchiere di vino e alla proposta di scegliere tra prosecco o champagne, eh sì ha scelto champagne. E allora il Miu Miu Literary Club è stato un inedito punto di incrocio tra l'incantesimo delle parole e quello della moda. Mi auguro di essere reincantato e questo sia stato solo l'inizio. Di una buona ibridazione.
La moda è uno strano incantesimo: ogni volta che ci vestiamo trasformiamo una qualunque forma o un qualunque colore del mondo che ci circonda nella nostra stessa pelle. È questa strana magia che fa di essa assieme l'arte più potente e più metafisica. Per parlarne è quindi necessario far coincidere la creazione e la filosofia. È quello che fanno Alessandro Michele ed Emanuele Coccia nel loro trattato – uno stilista e un filosofo - sull'alchimia delle forme della vita di tutte e tutti noi, La vita delle forme. Filosofia del reincanto , HarperCollins, in libreria il 7 maggio.
È quello che fanno Maria Luisa Frisa e Chiara Tagliaferri – una storica della moda e una scrittrice - nel podcast Sailor che attraversa il tempo e le geografie per raccontare il senso profondo contenuto in quel gesto quotidiano delle nostre vite: il vestirsi. Perché cambiare il mondo vuol dire anche cambiare d'abito. Il sistema della moda di Roland Barthes è del 1967. Ora anche Michela Murgia, molto amica di Maria Grazia Chiuri, nella sua autobiografia Ricordatemi come vi pare , Mondadori Strade blu, uscita il 30 aprile, ha affrontato la questione della moda: un linguaggio, una cultura, una semiotica che spesso gli intellettuali hanno svalutato e proprio non hanno capito. Insomma c'è da leggere e da studiare. Noi, intanto, andiamo avanti con Olga Campofreda e Viola Di Grado su Alba e Sibilla.
Beppe Cottafavi
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