Il libro di Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese (La tigre e i gelidi mostri, Feltrinelli) va alla ricerca di un senso complessivo in quella stagione sempre più lontana, con pezzi ancora mancanti di verità e processi tuttora aperti. È in questo pozzo nerissimo che gli autori si sono calati
Intanto il titolo, La tigre e i gelidi mostri: immaginifico, ma anche preciso nel circoscrivere il campo. La tigre richiama infatti lo Julius Evola di Cavalcare la tigre, summa del pensiero antimoderno del filosofo razzista («un razzista così sporco che ripugna toccarlo con le dita», lo definì Furio Jesi).
Mentre i gelidi mostri sono quelli del Nietzsche di Also sprach Zarathustra («si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri»). È un titolo dunque letterario ed evocativo quello che Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese hanno scelto per raccontare, ancora una volta, una storia mai abbastanza restituita alla memoria del paese.
Ed è una storia tremenda, rossa di sangue innocente. Ma è un racconto di cui incuriosisce l’ambizione contenuta nel sottotitolo del libro: Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia. Perché, certo, sappiamo che cosa è avvenuto, caso per caso, bomba per bomba. Ma oggi è necessario dare un “senso” a tutto questo, per quanto questo termine suoni surreale: che senso si può dare infatti a una strage indiscriminata in tempo di pace? Anzi, a un rosario di stragi.
C’è davvero lo spazio per farlo, oggi? La risposta è assolutamente sì, non fosse altro perché su quella stagione sempre più lontana (siamo a 54 anni da Piazza Fontana e a 43 dalla Stazione di Bologna, estremi temporali indicati anche nel libro) pezzi ancora mancanti di verità solo ora iniziano a emergere, faticosamente.
E promettono di non smettere di farlo: su Bologna infatti sono ancora aperti due processi (quelli a Gilberto Cavallini e a Paolo Bellini, prossimo alla Cassazione il primo e a breve in Corte d’assise d’appello il secondo), mentre per Brescia sono stati rinviati a giudizio nei mesi scorsi due nuovi imputati, entrambi veronesi ed entrambi ex militanti di Ordine Nuovo, Roberto Zorzi e Marco Toffaloni.
Per quest’ultimo il procedimento riguarda il Tribunale per i minorenni (tale era infatti l’imputato il 28 maggio 1974), e non è escluso che si debba tornare per la terza volta in udienza preliminare prima di partire davvero con il processo. Ma, al di là dei cavilli, rimane il fatto che la ricerca della verità – quanto meno quella giudiziaria – è ancora pienamente in corso.
E dunque i gelidi mostri, «le cui ombre e i cui artigli giungono fino ad oggi», come segnala lo stesso editore Carlo Feltrinelli in apertura presentando il libro, «che racconta episodi sconosciuti, o reinterpretati alla luce di fatti nuovi e di nuove chiavi di lettura».
Dove quell’«artigli» suona come un riferimento al “documento artigli” (quelli di Licio Gelli e della P2) emerso nel corso dell’ultima inchiesta sui finanziatori e mandanti della strage di Bologna. Appunto: i pezzi di verità per decenni occultati dolosamente, anche da pezzi dello Stato.
È in questo pozzo nerissimo che gli autori si sono calati, rileggendo antiche e nuove sentenze, ma anche rimettendosi sulle tracce di personaggi rimasti ai margini delle inchieste, ben protetti dal trascorrere del tempo e dalla persistenza delle omertà: personaggi ormai da tempo deceduti, e dunque non più perseguibili sul piano giudiziario.
Lo hanno fatto, Bettin e Dianese, memori della lezione del sostituto procuratore Mario Amato, ucciso a Roma dai Nar poche settimane prima della bomba alla stazione, proprio mentre stava per giungere «alla visione di una realtà d’insieme» dell’eversione di destra, scoprendone i livelli superiori rispetto agli esecutori materiali.
Piazza Fontana
Gli autori partono però da uno di questi ultimi, o almeno presunti tali. E le lancette del tempo tornano al dicembre ’69, alla “madre di tutte le stragi” e a Claudio Bizzari, veronese pure lui, di cui già il magistrato Guido Salvini aveva tracciato un profilo inequivoco nel suo libro La maledizione di Piazza Fontana, indicandolo come colui il quale collocò materialmente la bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura. Non ne aveva fatto il nome, è vero, ma subito dopo (si era nell’autunno del 2019) quel nome aveva iniziato a girare, sulla stampa e in rete.
Senza però che nessuno riuscisse ad approfondire la questione, visto che Bizzari mori proprio in quei giorni, a 73 anni. E senza lasciare segreti inconfessabili. Fu davvero lui l’ultimo uomo? Nel libro non troverete la pistola fumante: al suo posto, però, tutto quello che su di lui mai finora era stato scritto, ripescando polverosi verbali, scoprendo testimonianze mai connesse tra loro, saldando il tutto attraverso le parole di un altro ordinovista veronese dell’epoca, Giampaolo Stimamiglio.
E scoprendo tra l’altro una sorprendente incursione del Bizzari in questione, nella seconda metà degli anni Ottanta, addirittura nella Liga veneta.
Piazza della Loggia
Capitolo Brescia. Cioè la strage di piazza della Loggia. È il più corposo, nel libro. E al tempo stesso anche il più scivoloso. Si è detto dei procedimenti giudiziari ancora in corso (meglio: in fase di avvio).
Qui, oltre a molto altro, si propongono le dichiarazioni di una teste che costituiscono elemento importante della ricostruzione dell’accusa: Ombretta Giacomazzi, all’epoca fidanzata di quel Silvio Ferrari giovane estremista di destra dilaniato da un ordigno poche notti prima della strage. Un ordigno che lui stesso stava collocando per un attentato.
Il racconto della donna attraversa quell’intera complicatissima trama, coinvolgendo strutture militari (il comando delle forze terrestri alleate a Verona), nomi eccellenti (ufficiali dei Carabinieri e dei servizi segreti), eversori di gran fama (ovviamente neofascisti). E tutto ruota attorno ad alcune fotografie in cui, per farla breve, comparirebbero assieme un po’ tutti.
E che per questo sarebbero appunto costate la vita al giovane Ferrari. La vicenda è vertiginosa e si inscrive in quella di piazza della Loggia già non semplice di suo. E se la sensazione del lettore può essere quella di incredulità, sappia quello stesso lettore che in questo tipo di storie la realtà supera regolarmente l’immaginazione.
Non sarà dunque un compito facile quello dei magistrati bresciani che nei prossimi mesi se ne occuperanno in prima persona, dai banchi di chi sarà chiamato a giudicare.
La stazione di Bologna
Infine Bologna. E anche qui a spuntare è un nome sempre rimasto avvolto in un cono d’ombra: quello di Gianpietro Montavoci. Non si ripercorrerà qui ciò che su di lui leggerete nel libro, che è davvero molto: il suo ruolo nella struttura di Ordine nuovo, i suoi strettissimi rapporti con uomini chiave della rete terroristica, la sua competenza in materia di esplosivi, le rivelazioni di chi lo ha indicato come responsabile di un attentato alla sede del Gazzettino (che nel 1978 provocò la morte di un metronotte), addirittura il suo ruolo di informatore per il Sid.
Ciò che conta è invece sottolineare la sua presenza il 2 agosto del 1980 a Bologna, da dove quel giorno telefonò ai propri familiari per dire che stava bene. Una suggestione destinata a rimanere tale, vista la morte di Montavoci già nel 1982 in un incidente stradale.
Lo sanno bene anche Bettin e Dianese, che hanno quindi preferito concentrarsi sulle densissime pagine che l’Avvocatura dello Stato, nel corso del processo Bellini (e sono pagine richiamate nelle motivazioni della sentenza), ha dedicato a Gelli e alla P2 – ma pure a Federico Umberto D’Amato, l’ex prefetto anche lui piduista – per inquadrarne il ruolo di ipotetico “motore” della strage.
Per chi volesse, le oltre 1.700 pagine della sentenza Bellini sono facilmente reperibili in rete. Della prima metà, centrate sull’inchiesta mandanti, Bettin e Dianese dettagliano nel libro ciò che conta. Ad esempio, prima della strage, la “ribellione” contro Gelli da parte dei vertici dei servizi segreti (tutti) che erano nelle sue mani, attraverso un finto dossier che lo indicava come doppiogiochista legato alle intelligence di oltre cortina.
Poi la bomba a Bologna, la pubblicazione delle liste della P2 (siamo nella primavera del 1981) e la di poco successiva scoperta, in una valigia della figlia del “venerabile” al rientro in Italia, di documenti ricattatori: il celebre “Piano di rinascita democratica” e soprattutto la cosiddetta Direttiva Westmoreland, sorta di segretissimo “manuale” delle forze armate statunitensi per la guerra non convenzionale.
E, guarda caso, seguì un mezzo lieto fine per Gelli che, successivamente estradato dalla Svizzera, mai in Italia ha scontato un solo giorno in carcere, rimanendo ai domiciliari nella sua dorata Villa Wanda. Una «ricostruzione plausibile», ha scritto la Corte d’assise nella sentenza Bellini, «che specifica l’interesse di Gelli alla realizzazione della strage».
Bettin e Dianese dedicano il libro a Manlio Milani, “anima” della Casa della memoria di Brescia: in copertina, trattata, compare la sua immagine in piazza dopo la strage. Disse agli autori, mentre lavoravano al libro: «Bisogna andare avanti. Tutti quelli che con passione e spirito di servizio vanno in cerca della verità non devono mai farsi scoraggiare. Noi abbiamo perso i nostri famigliari, ma non la voglia di sapere». Come dargli torto?
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