- La ragione per la quale dolce vita, dolce far niente, pane, amore e fantasia e anche Made in Italy sono diventati degli stereotipi inutilizzabili è che il loro significato si è solidificato a tal punto che spesso la rappresentazione dell’Italia ne risulta monotona e lontana dalla realtà.
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Sarebbe interessante che l’immaginario associato all’espressione Made in Italy non fosse solo la riproposizione di modelli pre industriali in cui la manualità è l’unico valore assoluto ma che inglobasse anche l’innovazione, la ricerca, lo sviluppo di idee.
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Non esistono solo calzaturifici che costruiscono una per una décolleté gioiello per ricche signore cinesi ma ci sono anche produttori di felpe o t-shirt che partecipano a progetti lontani dal mondo del lusso ma ugualmente significativi.
Secondo una serie di studi (Made-In-Country-Index di Statista e KPMG) il marchio Made in Italy sta nella top ten dei marchi più noti al mondo, alcuni lo danno addirittura al terzo posto dopo Coca Cola e Visa. Se così fosse, ci si immagina che le istituzioni italiane avrebbero dovuto mettere in campo azioni di tutela, comunicazione e magari anche risignificazione per uno degli asset più di valore dell’azienda Italia. Immaginatevi quante persone lavorino al marketing di Coca Cola e Visa e quanto ogni giorno vengano spinti a rimodulare o irrigidire il significato dei brand a seconda delle scosse dei mercati, dei cambiamenti di gusto o in generale delle dinamiche socio-economiche globali.
Secondo Wikipedia, «dal 1999, il marchio Made in Italy ha cominciato a essere promosso da vari enti e associazioni, come l’Istituto per la protezione, la promozione e la preservazione dell’origine dei prodotti agroalimentari e vitivinicoli Made in Italy, 100ITA, l’Istituto per la tutela dei produttori italiani, l’associazione Made in Italy, il Comitato Made in Italy, l’Associazione Italian Sounding, l’Associazione nazionale per la tutela della finestra Made in Italy, Food Italy Certification, ItalCheck oltre che da parte di tutte le associazioni di categoria delle imprese dei diversi settori, dai consorzi di tutela e garanzia ed in primis dagli organi governativi che sono intervenuti regolandone l'utilizzo in base a specifiche leggi dello stato che ha avocato alle preposte autorità le attività di verifica e tutela».
Un po’ come dire che la Coca-Cola fa decidere a ognuno dei distributori regionali sparsi per il mondo di che colore fare la lattina. Peraltro Made in Italy non significa fatto integralmente in Italia ma fatto prevalentemente in Italia. Secondo l’articolo 24 del codice doganale europeo, un prodotto che è stato realizzato in due o più paesi è considerato comunque originario del paese in cui l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ha avuto luogo.
Quindi il requisito fondamentale che un prodotto commerciale deve avere per poter essere classificato Made in Italy è che sia stato progettato, ideato e disegnato in Italia. Anche se, industrialmente, alcuni processi produttivi possono essere localizzati altrove.
A causa di ciò nel 2009 qualche coraggioso ha provato, con scarso successo, a introdurre il marchio cento per cento Made in Italy che è come se la Coca-Cola mettesse sul mercato vicino a quella tradizionale una variante chiamata Real Coca-Cola. Pensate cosa succederebbe nel loro trafficassimo ufficio marketing.
Il problema del Made in Italy però va molto al di là degli aspetti legislativi. Per quanto ogni italiano vada più o meno fiero delle eccellenze artigianali distribuite sul territorio, delle abilità produttive e dell’amore per il bello naturalmente insito in noi in pochi riflettono seriamente sul fatto che tutto ciò è stato messo in vendita al migliore offerente a partire dagli anni Cinquanta e con una spaventosa accelerazione tra gli anni Novanta e Duemila ha portato non solo a un passaggio in mano straniera di centinaia di aziende ma anche ad una perdita di solidità del tessuto connettivo manifatturiero italiano. E non stiamo parlando solo di moda.
Più fuori che dentro
Qualcuno avrebbe dovuto accorgersi che quando Vuitton dice che le sue scarpe sono magistralmente fatte in Italia, mostrando abili mani (ma mai facce) di artigiani che lavorano esattamente come nel Rinascimento, si sta appropriando di una ricchezza culturale a cui la Francia, con la deindustrializzazione degli anni Sessanta, ha rinunciato perché troppo gravosa in termini economici ma che ha facilmente ritrovato in Italia, reintegrandola nella sua narrazione.
Questo vuol dire che il Made in Italy è geograficamente localizzato nella penisola ma è culturalmente sparpagliato e sparpagliabile in qualunque azienda della terra.
Per mantenere un marchio ancorato alla sua identità bisogna continuamente rinegoziarne i valori con la contemporaneità e non lasciare che si appiattiscano diventando così di facile uso e consumo.
La ragione per la quale dolce vita, dolce far niente, pane, amore e fantasia e anche Made in Italy sono diventati degli stereotipi inutilizzabili è che il loro significato si è solidificato a tal punto che spesso la rappresentazione dell’Italia ne risulta monotona e lontana dalla realtà.
Del resto se lasciate una torta di compleanno troppo a lungo dentro il frigorifero rimane bella fuori ma immangiabile dentro.
Il rimedio a questo lento declino passa per una risignificazione del Made in Italy. Risignificare è una parola difficile che quelli del marketing della Coca-Cola non userebbero mai ma che sta molto vicina a espressioni come relaunch o reboot, che non fanno sospettare un troppo complesso approccio semiotico.
Innanzitutto se Made in Italy volesse veramente dire fatto in Italia conterrebbe in sé delle garanzie di tutela dei lavoratori e di rispetto dell’ambiente che in altre parti del mondo sono scarsamente tenute in considerazione. In una parola diventerebbe un sinonimo di sostenibile vincendo la gara all’approccio etico e in questo modo portando anche una più profonda giustificazione a costi produttivi molto più alti.
Una moda diversa
In secondo luogo sarebbe interessante che l’immaginario associato all’espressione Made in Italy non fosse solo la riproposizione di modelli pre industriali in cui la manualità è l’unico valore assoluto ma che inglobasse anche l’innovazione, la ricerca, lo sviluppo di idee.
Non esistono solo calzaturifici che costruiscono una per una décolleté gioiello per ricche signore cinesi ma ci sono anche produttori di felpe o t-shirt che partecipano a progetti lontani dal mondo del lusso ma ugualmente significativi. Un luminoso esempio è Garment Workshop di Federico Barengo e Valerio Coretti, una collezione di streetwear interamente prodotta in Italia a prezzi assolutamente competitivi.
E come non ricordare New Guards Group, creata da Marcelo Burlon, Claudio Antonioli e Davide De Giglio che ha sfornato marchi come County of Milano, Palm Angels e il mitico Off-White? Non tutto il prodotto è fatto in Italia ma il modo in cui culturalmente è stata affrontata l’idea dell’imprenditorialità di moda italiana dovrebbe essere seguito da molti. Sarà per questo che il colosso delle vendite online Farfetch ha sborsato 603 milioni di Euro per appropriarsene nel 2018.
«Stiamo come stiamo», dice una famosa canzone delle sorelle Bertè che parla di isolamento e rassegnazione, due temi di cui entrambe erano molto pratiche ma che sono anche tipici della cultura italiana. Ma la canzone da anche una ricetta per uscirne: «Ma i fari passano tagliando la notte sopra il mare/c’è una piramide di cielo ancora da scalare/per noi soldati di ventura in questo metro quadro/sì, per adesso è molto dura/lo sfameremo questo amore così magro».
Chissà se chi vincerà le prossime elezioni accenderà dei fari per illuminare le meravigliose ma buie notti italiane, quelle in cui esistono infinite possibilità inesplorate e in cui c’è una massa di gente pronta a combattere per raccontare storie diverse?
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