Roberto De Simone, come il Vesuvio, incombeva su Napoli con musica, parole, opere e pensieri. È morto all’età di 91 anni dopo una parabola da scrittore, musicista, regista, musicologo, storico ma soprattutto eccezione e ossimoro, un illuminista esoterico. Senza amare il teatro borghese di Eduardo, ha arrangiato Bennato, lavorato alle connessioni fra generi musicali e riscritto la tradizione con la Nuova Compagnia di Canto Popolare e la sua opera mondo: La Gatta Cenerentola
Roberto De Simone, come il Vesuvio, incombeva su Napoli con musica, parole, opere e pensieri. Ombra imponente e imprescindibile. Epos e lessico magico, ossimoro continuo. Classico in vita perché era andato oltre il tempo, contro il tempo, cercando la tradizione quando veniva tradita, salvando il popolo mentre diventava gente, tenendosi – etica, conoscenza e pudore – fuori dalla volgarità e dall’ammuina che dilagavano.
Uomo complesso e sfuggente proprio perché radicato nella sua terra, che non era solo Napoli, ma il sud del sud dei santi. Non conosceva lo scandalo perché era un demone: con una teoria e una storia per tutto, perché tutto deve avere una teoria e una storia e se non c’è bisogna dargliela, se è spenta va riaccesa, se è sepolta va ritrovata.
Scrittore, musicista, regista, musicologo, storico ma soprattutto eccezione, un illuminista esoterico. Magma e scienza. Sovrano e giullare. Tiranno greco e schiavo contemporaneo. Maestro da subito ed eterno allievo di molti, perché molteplice era il suo mondo, disegnarne la mappa sarebbe come chiedere a Christopher Nolan di essere lineare.
Dentro il demone De Simone c’era tutto: la musica e il presepe, la civiltà contadina e l’aristocrazia mitteleuropea, il comunismo di Renato Caccioppoli e l’eversione di Giordano Bruno, Dio e il materialismo, il paganesimo e i requiem (ne scrisse uno per Pasolini con un Cristo nero in sax oro, interpretato da James Senese), la rivoluzione napoletana del 1799 incarnata da Eleonora de Fonseca Pimentel e la Madonna di Montevergine.
Per capire Roberto De Simone bisogna immaginare un fiume di gente e note e immagini e santi e musicisti e filosofi e cantanti e ballerini che ci passa di continuo davanti: un Acheronte con fantasmi più vivi dei contemporanei, una sorta di Scuola di Atene che abballa e ancora non basta. Per capire Roberto De Simone e una scheggia del suo pensiero – l’ironia come anima – bisogna immaginare il suo disappunto per Milano che aveva una Madonna sola e pure in piedi, mentre a Napoli c’erano sei Madonne Sorelle e pure in trono.
Il presepe
Ecco come confluisce tutto nella complessità, una Madonna in piedi e sei in trono, una sola da pregare rispetto a sei biglietti della lotteria a disposizione: una possibilità di grazia maggiore, e di storie da raccontare. Sei Sorelle meglio che one. Quelle sei Sorelle sono l’opera di De Simone: affluenti della creatività, storie crescenti e travolgenti. Dentro c’è tutto: il politeismo e gli spartiti barocchi, la cultura dell’accoglienza davanti al suprematismo dell’unicità. Questo atteggiamento desimoniano serviva (serve, servirà) per conservare il Mediterraneo dei tre libri e delle tre grandi culture, come si preoccupava di fare Predrag Matvejević, una Europa delle strade dei canti e non delle banche, della fratellanza con le radici in comune – quelle del rito – e non della lingua unica, del mare e poi della terra. Soprattutto ora che il mare è degli ultimi e dei morti, perché gli ultimi e i morti saranno sempre il futuro, se ci sarà qualcuno a cantarli ci sarà la vita perché il canto è la vita che si fa, (rac)contandosi.
Per De Simone tutto ha vita: gli oggetti e le persone, tutto è importante e appartiene a un disegno geometrico, da qui i suoi studi sul Presepe – mondo riprodotto – microcosmo di un tempo passato da dove attingere per capire/capirsi e campo di battaglia attraverso il quale leggere il futuro come una sfera magica disegnata su una scacchiera di re magi e pastori, angeli e madonne. Poi lui a questi microcosmi e a tanti altri – come dare vita nel 1967 con Giovanni Mauriello, Eugenio Bennato e Carlo d’Angiò alla Nuova Compagnia di Canto Popolare – ha dato la colonna sonora, le parole, le storie, esplicitando i caratteri degli attori/pastori (Cantata dei Pastori) senza perdere di vista la centralità della nascita di Cristo, aggiungendo e distinguendo.
Cucire e riscrivere
Era un napoletano capace di andare oltre la staticità – offeso dall’immobilismo della narrazione televisiva e romanziera sulla città, dal cattivo utilizzo della lingua napoletana: slabbrata e imborghesita – sapeva ascoltare i mondi sommersi – più Béla Bartók che Ernesto De Martino – da junghiano consapevole, una figura che gli si può affiancare come identità convergente di saperi magici e caratteriali con infinite possibilità di ricerca sul mondo interiore ed esteriore, è quella di Ernst Bernhard: psicoanalista, pediatra, astrologo tedesco e scrittore, allievo di Jung, che guarì Manganelli e guidò Fellini. Però Bernhard non aveva il controllo desimoniano della musica, linguaggio universale, capace di configurare l’utopia in un attimo, s-fuggente.
La rivoluzione del demone De Simone era la ricomposizione della geometria che il mondo aveva perso vedendosi, per questo – aiutato da Giordano Bruno e Alessandro Manzoni e dal suo libro magico I promessi sposi utilizzato come I Ching – ogni cosa o essere ha un proprio ruolo o posizione, e per avere la rivoluzione basterebbe mettere ogni cosa a suo posto. E chiunque provi a mettere a posto le cose è un rivoluzionario desimoniano. Per questo non vanno occultate le credenze, le civiltà, le vite, i suoni, le storie. Per questo bisogna cucire tutto, scervellandosi e scrivendo o riscrivendo e musicando.
Per capire che cosa restava dei gesti – di tradizione non rituale, ma indicativa – contenuti ne La mimica degli antichi del canonico Andrea Jorio, andò in una scuola elementare dei Quartieri Spagnoli, con Peppe Barra, e illustrò aiutandosi con movimenti e segni della tradizione una fiaba legata a Pulcinella per rimanere felice come un bambino: «i gesti vennero riconosciuti da una comunità di bambini al cento percento, erano tutti presenti nella tradizione a distanza di circa due secoli».
La lingua popolare
Al pari di un archeologo o da semplice demone, aveva ritrovato una parte della grande sapienza popolare. Da qua nasce la sua opera che ha molti linguaggi. E nella sua musica come nelle sue parole si sente tutto il risveglio di cui era capace da demone musicale, letterario, antropologico. Nel suo teatro si sente il dolore e l’allegria, lo sberleffo come ultima arma rimasta al popolo – oggi più di ieri – e la lotta tentata e persa, si sentono le migrazioni e le soppressioni, l’eleganza di certe connessioni musicali e la volgarità che diventa sopravvivenza come nella sua opera mondo: La gatta Cenerentola.
Ma ha spaziato nel pop da Masaniello a Maradona facendo il Morricone in Non farti cadere le braccia di Edoardo Bennato. Era figlio di Filangieri e del principe di Sansevero, di Rossini e Pergolesi, di Paesiello pur ascoltando incuriosito I Rage Against the Machine tanto da scrivere diversi rap, alcuni anche nel suo romanzo malapartiano Satyricon a Napoli ’44, a riprova che la differenza tra i generi musicali è l’esercizio dei cretini.
Anche perché tutta la vita del demone De Simone è stata vissuta all’incrocio dei venti musicali e della Napoli da ricostruire dopo la guerra, mentre era al conservatorio si manteneva suonando per gli americani nei night, era il pianista tra le nuvole di fumo che suonava Gershwin con la sinistra ripassando Rachmaninov con la destra, l’uomo coltissimo e curiosissimo che passava le notti tra i bassi riuscendo a cogliere le ultime sfumature della lingua napoletana con tutte le influenze del Regno, per questo non smise mai d’essere devoto all’oralità, all’improvvisazione, all’epicità e allo spontaneismo del popolo, arrivando a contrapporsi alla lingua scritta e teatrale di Eduardo De Filippo.
Contro il teatro eduardiano
Per De Simone il teatro eduardiano era una cessione all’italiano, un imborghesimento, per quanto d’un progressista, una ingessatura rispetto alla molteplicità napoletana. Ma non sminuì né disprezzò mai Eduardo, anzi, gli riconobbe sempre grandezza, quella che solo all’avversario che hai scelto per tutta la vita puoi riconoscere. Per capire le proporzioni e lo spirito bisogna pensare a Leonardo Sciascia con L’affaire Moro, nella commissione che indagava sul sequestro e la morte dello statista: la maggioranza da una parte e lui solo a cercare le lucciole pasoliniane che poi gli riappaiono col tempo sotto forma di sdegnose ombre dentro L’Oca d’oro. Il demone De Simone è stato il valore del sacro, nell’accezione più larga che va da Agostino a Mozart fino a Maradona. Studio, evidenza e intuizione.
Una oscillazione tra mito e significato, cercando di rimettere in ordine la geometria del mondo, partendo da Napoli. Il vecchio ulivo non disprezza i nuovi rami mentre cerca le sue radici. Roberto De Simone ha perso, il suo metodo no.
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