Nei suoi trentacinque anni di musica, ci sono stati almeno un paio di Pino Daniele, forse anche tre. Quello che apparve fu una scheggia imprendibile, così inafferrabile che il secondo album non si sapeva neppure come chiamarlo, se non con la forza sghemba di un anacoluto, «il disco che lui si fa la barba».

Lo aveva piantato fra Terra Mia, Nero a Metà e Vai Mò, quattro capolavori in cui le parole più citate erano «nun» e «cchiù», in fondo due negazioni, perché per questo era venuto al mondo Pino, per negare.
Era venuto tra la pazzia e il blues, tra l'inferno e il cielo, a sparigliare le certezze dei cliché, fino a far diventare il concetto esso stesso un cliché. Era venuto a rigenerare sia la tradizione classica sia gli elementi che aggiungeva, «da napo-americano» disse una volta, ma pure come uno strano sarracino arabo occidentale, da uomo di mille mondi racchiusi in un'anima sola.

L’epifania e lo scandalo

Sola nel senso di unica ma pure di solitaria, tanto che se ne andò subito a Formia perché Napoli gli stava larga. Quella che tra la fine degli anni ’70 e l'inizio degli anni ’80 i critici chiamavano rabbia elettrica, era l’esercizio di rottura di una minoranza, l’esigenza di inventare una musica nuova per una città più aperta, con la forza di un linguaggio vivo e disinibito.

Mezzo secolo prima di Geolier, l'accusa a Pino Daniele era la stessa di oggi. Non si capisce. Aveva recuperato la parlesia, il sottodialetto dei musicisti dei secoli andati, un codice per comunicare in pubblico senza farsi comprendere.

Chi invece capiva, in genere le mamme, si scandalizzava per il fumo e per i femminelli che c'erano nelle canzoni, perché diceva figlio ’e bucchine, nun ce scassate 'o cazzo. Pino Daniele dice le male parole, Pino Daniele vi porta sulla cattiva strada. Sono sempre uguali i demoni dei giovani agli occhi dei grandi.

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La colonna sonora del terremoto

In strada invece Pino Daniele teneva compagnia nelle notti segnate dal terremoto del 1980, quando i sedicenni-ventenni riempivano con le chitarre le notti 'e chi s'accuntenta. Pino si era preso il compito di riscrivere l'antropologia cittadina, nel solco di certe intuizioni che appartenevano a quel tempo a pochi (La Capria e Rea: la napoletanità e la napoletaneria), Eduardo stava morendo, certamente appartenevano al suo gemello artistico Massimo Troisi, che al cinema faceva lo stesso lavoro di dissacrazione del canone. In una delle prime interviste (1979) disse: «Ho cercato di scrivere qualcosa di amaro che restasse in testa». Pretendeva che Napoli fosse una città come le altre, in una città che ama sentirsi dire quant’è speciale.

Eppure, nel sublime paradosso dei suoi pezzi, lo desiderava cantando ’o mammone e la bella ’mbriana, i Lari e i Penati, le divinità di una casa dove «chi cade ‘nterra se sape aizà», dove ’e ccriature vanno messe al sole «perché hannà sape’ addò fa friddo e addò fa’ cchiù calore» e «s’hanna ‘mparà addò stanno ‘e lenzola».

La svolta linguistica

«Non rifiuto le mie radici, odio gli aggettivi che limitano: una certa napoletanità, negativa come l'arte di arrangiarsi», disse mentre veniva innalzato come totem della città e pastore sul presepe dagli stessi che commettevano il sacrilegio della banalizzazione. «Lo so che al massimo mi possono capire in mezza Italia, ma io così parlo e così canto» aggiunse quando era ancora il 1981.

Fu il secondo Pino che al contrario scelse di cantare in lingua, negli anni in cui la nuvola delle parole più citate nei suoi testi portò alla luce «sole», «vita», «mondo», «dentro». I duetti con le stelle del pop italiano si sovrapposero ai musicisti cubani al trombone, i percussionisti brasiliani, le collaborazione con i migliori bassisti della scena americana. 

Fu dopo la morte di Massimo Troisi, quando forse non gli interessò più essere bandiera di niente e di nessuno. «Non mi viene più di scrivere in dialetto, pur amando molto Napoli. Sono cambiato, non voglio farmi prendere dalla nostalgia. A fasi pigliare dalla nostalgia si vive male, invece bisogna andare avanti. Faccio ancora i pezzi storici, ma li faccio anche a Como».

La scena di oggi

Sono dieci anni oggi che questa voce si è spenta, inseguita dalla ricerca di inediti, senza eredi eretici quanto fu lui nel 1977, ma la radice e gli echi vivono in una scena musicale fertilissima, dove i Nu Genea sono l’espressione internazionale, la trap in dialetto viene cantata pure a Milano, Tropico è l’autore di mezza musica italiana.

«Calore» è stata la prima parola del primo singolo registrato, un elemento dell’oleografia più tipica da cui cominciò l'opera di smantellamento. «Dimension» è stata l’ultima parola dell’ultima traccia del suo ultimo disco. In inglese. Un’altra dimensione. «Per chi è fuori tempo».

Pino Daniele si era ripreso sé stesso. A Magliano in Toscana, dove era andato a vivere, gli dedicano oggi un nuovo parco. Si chiama “Na jurnata ‘e sole”. Dieci anni dopo è chiaro. Aveva ragione lui: chi tene ’o mare è fesso e cuntento.

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