Al direttore del quotidiano Domani

Ho letto l’articolo a firma di Christian Raimo su Domani del 28 luglio 2024.

Il titolo “Classi Lacio drom, la storia sepolta: quando la scuola ghettizzò rom e sinti” rende subito esplicito l’argomento di cui tratta, cioè dà voce alle tesi di Bravi e Rizzin (si veda Luca Bravi e Eva Rizzin, “Lacio drom - Storia delle classi speciali per zingari - Rom e Sinti a scuola 1965/1982” - Anicia, Roma 2024 ) che valutano in maniera assolutamente negativa il lavoro fatto dall’Opera Nomadi in accordo con l’Istituto di Pedagogia dell’Università di Padova e col Ministero della Pubblica Istruzione per far emergere da una condizione di marginalità, povertà, esclusione sociale, i sinti e i rom, al tempo denominati collettivamente zingari.

In particolare, nel libro, la scolarizzazione viene presentata come volontà di ghettizzare quando l’intento è stato l’esatto contrario: fornire l’alfabetizzazione a una comunità che ne era priva come mezzo per superare una condizione di vita inaccettabile.

L’intervista a Eva Rizzin esprime una serie di valutazioni non vere. Ad esempio la percezione tutta negativa della scuola da parte di un gruppo di sinti.

il disegno sulla copertina del libro Lacio drom, storia delle "classi speciali per zingari"

Curiosamente la copertina del libro raffigura un’altra copertina: quella di “Ticno lil”, il giornalino di raccordo fra le classi speciali il cui contenuto dimostra quanto invece gli alunni, autori degli scritti, fossero sereni. Mi scrive in proposito l’insegnante che ebbe il compito di redigere il giornalino: «... I testi dei bambini sono straordinari: parlano di se stessi, delle proprie emozioni, della loro vita e delle loro famiglie. Quello che non capisco è come questo giornalino possa essere usato per denigrare le classi Lacio Drom, al contrario dimostra come gli alunni vivessero la scuola quale ambiente accogliente e come avessero fiducia nei loro insegnanti». Dal giornalino si nota inoltre come avessero appreso a leggere e scrivere, altro elemento negato nell’intervista.

Che la madre di Eva Rizzin sia stata male a scuola e sia rimasta analfabeta non consente, quale caso singolo, di essere generalizzato fino a produrre una teoria.

Per comprendere davvero quale fu il progetto basterebbe consultare i documenti della Pubblica Istruzione. Ecco quali:

1965 - Prima Convenzione Ministero P.I. - O.N. (Opera Nomadi) con lo scopo di istituire classi speciali per bambini zingari e nomadi. Sono questi i termini utilizzati nella circolare.

1976 - il Ministro della P.I. autorizza, con ulteriore Convenzione, il funzionamento di 60 classi elementari per alunni nomadi e zingari in età d'obbligo, pur ritenendo già opportuno e necessario il loro inserimento nelle classi comuni.

1982 - Una nuova Convenzione tra Ministero della Pubblica Istruzione e Opera Nomadi stabilisce che i fanciulli zingari e nomadi in età d'obbligo scolastico vengano inseriti in classi comuni e prevede l'utilizzazione degli insegnanti di sostegno al fine di agevolare l'inserimento scolastico di questi alunni se in difficoltà. Le insegnanti delle classi Lacio Drom sono nel frattempo divenute un ruolo ad esaurimento.

Nel 1982, quindi, la nuova intesa con l’Opera Nomadi, a 17 anni dalla prima, stabilisce che i bambini rom in età di obbligo scolastico dovevano frequentare le normali classi scolastiche con la presenza di un insegnante aggiuntivo per ogni sei allievi, con la funzione di ponte tra scuola e famiglie. Un cambiamento radicale nell’arco di 17 anni dopo un necessario ancorché complesso inizio.

Dunque non una “ghettizzazione” ma una strada verso la parità.

Renza Sasso

ex insegnante nelle classi speciali e collaboratrice dell’Opera Nomadi


Risponde Luca Bravi

Nel periodo in cui sono tornate alla ribalta proposte di riapertura di classi differenziali per “stranieri”, espresse nel contesto politico italiano ed europeo, accolgo con piacere la possibilità di rispondere ad alcune valutazioni critiche sulla storia delle “classi speciali per zingari” in relazione al libro scritto a quattro mani con Eva Rizzin. Se molto si è studiato sul contesto delle classi differenziali rivolte a persone con disabilità, l’aspetto specifico del loro utilizzo rivolto a rom e sinti è stato scarsamente oggetto di riflessione (come pure quello relativo agli alunni del meridione nelle scuole del nord Italia).

Il volume non ha intenzione di attaccare il lavoro di singoli che costruirono e parteciparono a quell’esperienza, come maestre e maestri che s’impegnarono nell’istruzione di giovani rom e sinti; da questo punto di vista, l’introduzione del volume riporta parole molto chiare.

Il processo storico di scolarizzazione che è descritto in questo testo intende rendere conto delle differenti fasi che caratterizzarono la scuola per sinti e rom nelle classi speciali; non vuole essere un atto di accusa verso le singole persone che vi si dedicarono con impegno e dedizione, ma un’analisi volta alla contestualizzazione nell’ambito della storia sociale dell’educazione, perché è utile rendere conto di una fase storica che risultò segregante per bambine e bambini proprio dentro delle aule scolastiche, nonostante l’obiettivo di partenza fosse positivo e legato all’inclusione sociale di una minoranza (Bravi, Rizzin, 2024, p. 14).

Mi pare invece importante proporre elementi di riflessione rispetto all’affermazione con cui Sasso dichiara che lo scopo emancipatore delle Lacio drom fosse già ben esposto nelle molteplici convenzioni stipulate tra Ministero della Pubblica Istruzione, Istituto di Pedagogia dell’Università di Padova e Opera Nomadi che si sono succedute dal 1965 al 1982, sottintendendo che il lavoro svolto nel volume sarebbe ridondante rispetto a quanto già chiaramente esposto negli accordi tra enti ed istituzioni.

È questo un elemento che necessita di essere chiarito, perché l’interesse centrale che ha mosso il lavoro di ricerca è stato quello dell’analisi storiografica e della riflessione su che cosa possa e debba essere (e cosa non possa e non debba più essere) la scuola descritta dalla Costituzione della nostra Repubblica.

Corrisponde a realtà il fatto che le convenzioni citate abbiano espresso la volontà dell’inclusione di sinti e rom attraverso la scuola, ma è fondamentale sottolineare che ciò che nasce sul piano istituzionale (leggi, norme, accordi, convenzioni) si nutre di una piattaforma teorica e culturale che deve essere analizzata e indagata: interrogarsi circa le basi epistemiche su cui si fondano processi che la maggioranza chiama “inclusione” (e farlo oggi con la partecipazione delle minoranze) è un’azione doverosa, perché le idee socialmente condivise, le descrizione fatte di una minoranza, la validità o meno di precedenti ricerche, possono trasformare l’intenzione d’includere in un processo opposto a quanto auspicato, come dimostra il caso delle Lacio drom.

Dal punto di vista metodologico, il volume ricostruisce la storia delle “classi differenziali per zingari” attraverso i saggi pubblicati tra 1965 e 1982 sulla rivista di Opera Nomadi denominata anch’essa “Lacio Drom”, in modo da rendere conto di punti di vista, descrizioni ed analisi che furono alla base delle convenzioni e della progettazione educativa dell’ente; si è inoltre scelto di pubblicare le testimonianze critiche di sinti e rom che frequentarono quelle stesse aule, in modo da rendere conto anche della problematica e dolorosa memoria di scuola che si è sedimentata in molti adulti delle comunità. Nel 1966, Salvatore Accardo, Direttore Generale dell’Istruzione Elementare presso il Ministero della Pubblica Istruzione, chiarì il fine delle Lacio drom:

Il discorso sulla libertà didattica qui bisogna ridimensionarlo del tutto in questo caso; cioè bisogna tener presente che il fine è rappresentato dalla persona del ragazzo. Qui veramente si verifica il caso dell’insegnamento individualizzato (“Lacio Drom”, 1966).

Le teorie sui rom e i sinti

L’obiettivo dell’inclusione sulla base di un intervento individualizzato deve però essere messo in correlazione critica con le teorie applicate su sinti e rom in quel periodo; qui ne riportiamo alcune riproposte all’interno del volume:

Anzitutto mi sembra di poter dire che il bambino zingaro medio è emotivo di una emotività nient’affatto dissimulata, o a solo linguaggio fisiologico organico, ma a manifestazioni psichiche intense e traboccanti. Quanto all’attività, o all’attitudine a ricercare o a creare le occasioni per agire, e a superare le difficoltà, il bambino zingaro assai spesso ne è privo; ma non soggiace troppo alla frustrazione, perché la primitività del suo ambiente tribale opera fatalmente una drastica riduzione almeno in due su tre fra i bisogni basilari istintivi […].

Il bambino zingaro vive, agisce e pensa, se pensa, in funzione del presente e il suo atteggiamento riguardo al dato concreto e attuale è spiccio e disinvolto. […] Vogliosi di risultati immediati, hanno un vivo bisogno di spassi, e presentano frequenti fenomeni d’incoerenza. […] Bugiardelli anziché troppo degni di fede, non hanno forse una grande inclinazione naturale all’onestà, come non solo agli zingari, ma a tutti i nervosi accade.

Scarsissimo gusto per il lavoro, trascurano i lavori imposti, tendendo sempre a rimandare sine die. Facilmente scoraggiati, poco perseveranti, leggeri. Spenderecci, se ne avessero. E, nonostante tutto, contenti di sé. Una dolce fermezza, ed una generosa comprensività, dovranno caratterizzare l’azione educativa dell’insegnante, al quale sarà talvolta utile il ricorso ai modi di una misurata freddezza. […] Le minacce e i castighi sarebbero la peggior terapia che si possa adottare. Essi possono avere bisogno piuttosto di terapie propriamente mediche, di cure medicamentose sia toniche che sedative. (Teseo Furlani - psicologo, “Lacio Drom”, 1966).

Il nomadismo, e ciò vale per quella di Montescendi [Lucca], come per tutte le comunità più o meno vaganti, prima che un sistema e una particolare organizzazione di vita, è la componente basilare nella psicologia dello zingaro, il quale, come è stato detto, “non è zingaro perché viaggia, ma viaggia perché è zingaro”. 

(Alberto Collodi – viceprovveditore di Lucca, 1966, p.3).

La chiusura secolare del mondo zingaro, dovuta ad un atteggiamento di difesa e quindi di rifiuto di autentici rapporti interumani ed interculturali con il nostro mondo, ha fortemente attenuato la dinamica interna dell’evoluzione storica, fino a giungere ad una specie di cristallizzazione nelle loro strutture culturali e sociali del tutto primitive. La civiltà zingara è ancora allo stadio della tradizione orale, dell’economia della raccolta, della struttura sociale del clan parentale. Se nel Medio Evo, al loro primo apparire in Europa, gli Zingari non si differenziavano molto per livello culturale da certi strati delle nostre popolazioni, oggi il divario è tale da rendere praticamente impossibile un inserimento nella società occidentale senza un periodo di preparazione, cioè di una educazione adeguata, che li abiliti a fruire dei beni della nostra civiltà. (Karpati, – pedagogista e referente nazionale di Opera Nomadi, “Lacio Drom”, 1967).

Gli zingari sono popolo di natura o popolo di cultura? Vediamo prima di delineare le differenze sostanziali tra i due tipi di popoli. Il popolo di natura ha come elementi dominanti l’irrazionale, il fantastico e lo spontaneo, ma le vere cause di distinzione non sono esteriori; risiedono piuttosto nel comportamento psichico diverso. Il popolo di natura ha una scala di valori diversa dal popolo di cultura. […] Nel popolo zingaro, che potremmo con cautela chiamare di natura, aspetti religiosi e aspetti magici si intrecciano.

(don Bruno Nicolini – presidente Opera Nomadi nazionale, “Lacio drom”, 1968)

L’aspetto più appariscente è l’instabilità, una instabilità interna che tradisce una accentuata instabilità interiore. Sul piano operativo questa instabilità trova la sua massima espressione nella mobilità spaziale cioè nella vita errante e nel frazionamento sociale, che all’estremo può giungere ad un vero e proprio individualismo. Sul piano interiore, l’instabilità si esprime nella dimensione prevalentemente esistenziale, vale a dire che lo Zingaro vive intensamente istante per istante ogni momento della vita, senza tener conto delle esperienze passate e senza preoccuparsi dell’avvenire. Ne sono conseguenza la carenza della dimensione storica (senso del tempo) e la mancanza di ogni forma di previdenza.

(don Bruno Nicolini – presidente Opera Nomadi nazionale, “Lacio drom”, 1969).

La realtà delle classi differenziali

La descrizione di queste comunità era costruita in relazione a concetti di primitività, nomadismo culturale, incapacità di sopravvivenza di fronte al progresso ed andava a sostenere una necessaria rieducazione delle giovani generazioni in classi differenziali che poi si tradusse in effettiva ghettizzazione. Questo tipo di visione fu appesantita dal ricorso a molteplici test che furono applicati a sinti e rom (ma mai correttamente tarati su di essi) e che portarono a definirne un deficit d’intelligenza collettivo, fino a giungere ad una generalizzata messa in discussione delle figure genitoriali di riferimento:

Dall’insieme degli elaborati [test FAT] si possono trarre alcune costanti quali […] l’indifferenza dei genitori verso i figli non più piccolissimi; la cura assidua ed esclusiva delle madri nei confronti dei lattanti; la consapevolezza dei figli maggiori di essere stati sostituiti nell’affetto e nella cura dei genitori; l’irrazionalità nel comportamento degli adulti, la non sufficiente sicurezza tratta dalle figure parentali, causa l’incostanza e l’ambiguità nel comportamento dei figli. […] I ragazzi considerati sono ben lungi dall’essere ben adattati, ossia sono disadattati. La sanità mentale si qualifica anche come capacità di servirsi dei propri poteri mentali e volitivi in modo efficiente.

(Renza Sasso, “Lacio Drom”, 1975).

Queste letture della realtà della comunità sono certamente da inserire nel contesto culturale, psicologico e pedagogico dell’epoca, ma possono davvero essere definite oggi parte di un percorso verso la parità e l’emancipazione? E Possiamo fare a meno di considerare in modo critico e approfondito questi passaggi, quando ci apprestiamo a costruire nuove misure di partecipazione nei contesti educativi del presente?

È su questo punto che la visione di Renza Sasso si differenzia maggiormente da quanto proposto nel libro. Credo che secondo gli obiettivi della ricerca storiografica, non si possa che affermare che le Lacio Drom furono ghettizzanti, perché nella quasi totalità dei casi produssero condizioni di stigmatizzazione e problematizzazione della “diversità”; qui di seguito la descrizione della condizione delle aule in cui si svolgevano le lezioni:

Reggio Emilia, i ragazzi nomadi sono in un seminterrato: il che sarebbe contrario alle disposizioni di legge […]. Bisogna però riconoscere che è un seminterrato speciale, dove ci sono alcune finestre che danno luce e aria. Sono anche qui tre le classi Lacio Drom: in un’aula ci sono quattro finestre, nella seconda ce ne sono tre, nell’ultima (dove ci sono i bambini della prima inferiore) due. In questa ci sono dai 12 ai 17 bambini, che devono trovare posto su una superficie di mq. 13,50. Il minimo di superficie (mq. 1,20 per bambino) non è rispettato, inoltre l’aerazione è insufficiente. Inoltre […] il rapporto tra ragazzi nomadi e gli altri alunni è accuratamente evitato. Gli alunni del luogo entrano dall’ingresso principale e occupano il primo piano dell’edificio; i nomadi entrano da un ingresso secondario e occupano il seminterrato. Un insegnante ci diceva: “Contatti con gli altri alunni del piano superiore? Solo per Natale, per Carnevale: sono contatti che mancano, necessariamente, di una certa spontaneità. I nostri ragazzi hanno vergogna a volte di farsi vedere dagli altri”. La stessa cosa a Torino, a Roma, a Trieste, a Dolo. E veniamo ai casi particolari. […] Rimaniamo a fianco dei bambini, immaginiamo di andare a scuola con loro.

A Pescara funzionano quattro classi Lacio Drom: facciamo parlare una maestra: “Prima avevo un’aula di 10 mq., con una finestra, quattro banchi a due posti e un piccolo tavolo per cattedra, in cattivo stato; ora ho cambiato aula. Un po’ più grande dell’altra, misura mq. 14, ha due finestre, le pareti sono ricoperte di mattonelle bianche perché era una cucina. […] Per ora, non ho ancora la lavagna. Da un’altra parte (Colle Scorrano) sempre a Pescara, l’aula è stata ricavata da un corridoio, un tramezzo la divide dai gabinetti; è fredda, ha imposte vecchie che lasciano penetrare la pioggia con il conseguente allagamento dell’aula. Per chiudere il panorama delle classi di questa città, diamo un ultimo sguardo a due classi che funzionano in uno stesso edificio. L’edificio è privato, ma non ancora ultimato.; un’aula, tra le due che ospitano i nomadi, misura mq. 21, ha una finestra, vi sono 5 banchi vecchi e due tavolini nuovi, con sedie, niente armadio, né scaffali. “La mia aula ha le pareti sporche e, anche se l’edificio non è ultimato, è vecchia” – conclude l’insegnante.

Trento, qui i bambini, da un bel pezzo ormai, si danno da fare ormai, si danno da fare per stampare un giornalino molto simpatico, costruito – testi e disegni – tutto da loro. Si intitola (traducendo in italiano): “Siamo tutti fratelli”. I fatti, in particolare l’aula in cui si trovano, sembrano smentirli. Eccone la fotografia: uno stanzone di oltre 50 metri quadrati, con due finestre […], in un seminterrato. Le pareti, dopo l’alluvione del 1966, non sono state più imbiancate. Grandi macchie scure le ricoprono; l’intonaco è rimasto, come per miracolo su qualche pezzo di muro. L’illuminazione naturale è insufficiente: anche nelle giornate di sole è necessario utilizzare la luce elettrica. […] l’aula è usata anche come sala da pranzo dei bambini zingari anche qui esclusi dal refettorio comune: a tale scopo servono i tavoli da quattro posti. Le altre classi hanno tutte le aule ai piani superiori. Classe speciale? Fratellanza universale? […].

(Paolo Di Benedetto, “Lacio Drom”, 1968)

È interessante aggiungere che anche nella nuovissima scuola di Bolzano, in cui furono attivate le prime classi Lacio drom, a fronte di aule perfette e materiali didattici garantiti in abbondanza, gli alunni delle “classi speciali per zingari” svolgevano la propria vita scolastica totalmente disconnesse dal resto delle bambine e bambini del plesso, sia per orario svolto, sia per locali frequentati.

È per questo motivo che la voce di Giorgio Bezzecchi, rom che frequentò le Lacio drom a Milano, rappresenta un punto di vista inedito, ma che è decisivo inserire accanto alle parole di tanti e tante altre che furono alunne ed alunni delle differenziali:

Io e tanti ragazzi della mia generazione abbiamo subito altre umiliazioni. Mi torna in mente la scuola. Erano le classi speciali Lacio Drom. Certo che vanno contestualizzate al momento storico, ma questo non significa che io non l’abbia patito. Era il 1966 e noi ci dovevamo mettere in file separate dagli altri. Avevo 6 anni ed avevo bicchiere e tovaglie diverse dagli altri bambini, nella scuola di via Moretti a Milano. A noi davano posate diverse da un altro vassoio rispetto a quello degli altri. Le nostre madri ci mandavano particolarmente puliti proprio a scuola, ma prima di entrare ci facevano comunque la doccia. Sembrava che noi potessimo essere infetti e la mia sensazione profonda era quella dell’umiliazione.

Un male necessario?

Ci sono rom e sinti, viene detto nell’intervento di Renza Sasso, che ricordano con positività le Lacio drom; devo dire che la nostra ricerca non ne ha individuati, mentre abbiamo raccolto interviste in cui alcuni si richiamano con affetto al rapporto avuto con i maestri e le maestre. Tutte le persone hanno però sempre stigmatizzato il senso di disagio di essere distaccati dagli altri studenti.

Non dubito affatto che possano esistere persone con ricordi positivi, ma il volume ha scelto di essere uno strumento di espressione diretta delle voci di chi subì, suo malgrado, le classi differenziali e che oggi, da adulto, ne vuole offrire una riflessione in modo diretto; a queste voci è dato pieno riconoscimento e rispetto, proprio perché l’obiettivo è quello di muoversi verso una storia che possa essere costruita in maniera partecipativa anche attraverso le parole di chi fu oggetto di tali pratiche (quanto riflettuto negli ultimi anni in materia di cancel culture ne rappresenta un punto di riferimento).

La testimonianza diretta o indiretta è uno strumento essenziale dello storico, al pari di un documento che traccia una storia personale e che, tessuto insieme ad altri, può offrire interpretazioni e letture assonanti e dissonanti delle proprie tesi. Altro conto è invece indicare, come fatto da Sasso nella lettera proposta alla redazione, che il volume sia costruito solo sulla base di un’unica testimonianza critica, in particolare quella della madre della coautrice Eva Rizzin, perché quest’affermazione non tiene in considerazione più di cento documenti che costituiscono le fonti del volume e che sono la base della riflessione storiografica proposta, accanto a molteplici testimonianze dirette.

Vorrei infine chiudere queste riflessioni con alcune parole sulla questione dei 17 anni impiegati da Opera Nomadi per passare dalle differenziali alle classi comuni. L’ultima parte del volume afferma che furono proprio maestre e maestri delle Lacio drom (dagli anni Settanta) ad accorgersi che la ghettizzazione c’era e che andava superata, perché rendeva inefficace l’istruzione. Mi trovo pertanto d’accordo con quanto già da tempo affermato dallo stesso don Bruno Nicolini, il presidente di Opera Nomadi nazionale che, nel 1978, scrisse un intervento particolarmente chiaro in merito alla ghettizzazione delle Lacio drom:

Pur riconoscendo la sua funzione necessaria per l’avvio della scolarizzazione data l’assoluta mancanza della scuola nella tradizione zingara e data pure l’ostilità e il rifiuto della società e della stessa scuola; pur riconoscendone anche dei risultati positivi legati soprattutto a fattori personali, primo la personalità dell’insegnante; tuttavia, in generale, si è dimostrata strumento facile di ghettizzazione dove i fanciulli zingari vivono appartati, vale a dire a contatto con il solo insegnante di classe, senza potersi confrontare con realtà alternative e poter vivere esperienze anche con altre classi ed avere veri contatti e scambi con il resto della scuola; e perciò male si adatta ai bisogni autentici del bambino zingaro e nomade, diventando spesso occasione e strumento di ulteriore segregazione con conseguente incremento della diffidenza e della aggressione nei nostri confronti; la tendenza ad utilizzare la classe Lacio Drom come iniziazione dell’ingresso successivo nella classe comune, a parte le debite eccezioni, grazie ad insegnanti particolarmente dotati e dediti, nella realtà rinforza i meccanismi della marginalizzazione all’interno del sistema scolastico.

(Bruno Nicolini “Lacio Drom”, 1978).

Ci vollero 17 anni per questo passaggio, ma non è un tempo così rapido: si tenga presente che 17 anni di Lacio drom hanno rappresentato per molti sinti e rom l’unica esperienza di scuola fatta in età infantile e adolescenziale, senza mai poter sperimentare la scuola di tutti/e. Se accettassimo oggi di definire una simile strada come un percorso necessario verso la parità, rischieremmo di adoperare gli stessi riferimenti teorici per vederlo giustificare nel presente verso altri gruppi definiti “diversi”. Mi pare utile proporre un ultimo sguardo critico attraverso un documento inedito, un disegno, prodotto da una bambina sinta che chiameremo L. e che frequentò le Lacio drom a Reggio Emilia.

Nel disegno svolto come compito, L. ha prodotto la piantina topografica della propria aula riservata agli “zingari” in relazione all’isolato cittadino in cui era inserita: si trovava in un sotterraneo distaccato dal plesso scolastico che era frequentato da tutte le altre persone che andavano a scuola. L. ha imparato a scrivere nella differenziale, ha firmato perfettamente il foglio del compito, aveva imparato anche a leggere e ricorda con affetto la maestra. Potremmo però definire quest’immagine come un esempio di un percorso verso la parità? E questo disegno può essere considerato parte di un processo della scuola democratica cui guardare come un esempio di scuola così come è espressa dalla Costituzione italiana?

Cosa ci lascia il racconto delle Lacio drom e delle classi differenziali in genere? Non credo si possa considerare un percorso verso la parità, piuttosto questa storia ha la forza di ricordare alla scuola e a chi la pensa e la progetta, a chi ci lavora e a chi la vive, quale sia la direzione da prendere per renderla luogo di dialogo e di vita insieme. Non può esserci reale processo d’istruzione in ambito democratico se questo si svolge in un contesto di narrazione di una “problematica diversità” e in una scuola divenuta ghetto. La scuola ghetto è sempre l’opposto di una scuola che possa essere forza emancipatrice. Sono queste le parole con cui il libro si conclude offrendosi alla possibilità di dibattito in un contesto ampio e democratico nel quale anche le voci delle minoranze possano essere parte attiva nello spazio di discussione.

Nel 2020 e nel 2022 due istituti comprensivi, uno a Pescara e l’altro a Reggio Calabria, hanno dato vita a classi riservate a soli rom nel proprio istituto; a Pescara l’esperienza è stata definita innovativa dalla dirigenza del plesso. Forse sono sufficienti questi esempi recenti a far comprendere quanto ci sia necessità di tornare a confrontarsi con questa vicenda che fa parte della storia della scuola italiana.

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