Il film di Ludovica Fales racconta la vicenda reale di una diciassette rom a cui viene tolto il figlio. Un racconto corale, autentico, privo di paternalismi e contro i pregiudizi
Come in una favola antica, due bellissime ragazze vestite di rosso, sedute, mentre una pettina i lunghi capelli all’altra. «A cinque anni in casa anch’io leggevo Cinderella / in strada tutti mi chiamavano la zingarella...», scandisce Militant A di Assalti Frontali nel brano e nel video “Il mio nome è Lala”, diretto dalla stessa regista Ludovica Fales.
Qui non si racconta una favola, ma la storia vera di Zaga (Zaga Jovanovic), che rimase incinta a diciassette anni, nel 2012, vedendo poi il proprio figlio assegnato d’ufficio ai servizi sociali, a causa della mancanza di documenti che certificassero sia la sua identità che quella dei componenti della sua famiglia di provenienza. Zaga è una rom, arrivata in Italia da bambina con padre, madre e fratello in fuga dalla guerra nella ex-Jugoslavia. Siamo a Roma, al Quarticciolo, zona fra viale Togliatti e via Prenestina. Luogo in cui potremmo trovare fianco a fianco un’impresa di pompe funebri e una trattoria di cucina tipica, nel quale, in uno dei molti momenti di grande intensità di questo film, alle spalle di Lala che si riflette nella vetrina del ristorante per passarsi il rossetto sulle labbra appare per un attimo Zaga, che subito dopo si celerà dietro di lei, come se fosse assorbita e si congiungesse con la giovane ragazza che le sta davanti.
Ed è così, perché la vicenda di Zaga viene raccontata nella messa in scena attraverso quella di Lala (Samanta Paunkovic), che spinge la carrozzina col figlio neonato con un braccio ingessato a causa di una precedente aggressione subìta da qualche bullo di zona e che vive in una casa occupata, nella quale riceverà la visita di un vigile urbano, di un ufficiale giudiziario e di un’assistente sociale, incaricati di toglierle il bambino.
Una storia realmente accaduta, con la protagonista reale presente nella ricostruzione cinematografica. Uno svolgimento narrativo che ha moltissime e intenzionali coincidenze con la biografia della persona che viene raccontata. Così, dopo i primi venti minuti di questa narrazione a doppio livello, si sente la voce della regista che chiama «stop!» e chiede all’attrice: «Come ti è parsa questa?», invitandola ad una autovalutazione dello stato di coinvolgimento emotivo e della resa interpretativa.
Lala è un film che racconta una storia immaginata. È una storia immaginata che ha radici in una storia vera. È un racconto ricostruito sui set della periferia romana che, allo stesso tempo, viene interrotto per far confrontare i ragazzi e le ragazze che lo stanno interpretando sul loro percorso esistenziale.
Resistere alla cattiveria
Ci hanno lavorato cinque anni, Ludovica Fales e tutto il gruppo (oltre alle due protagoniste, si sono dedicati all’impresa Francesca Carducci, Livia De Angelis, Antonio Di Tolla, Pasquale Plastino, Leonardo Halilovic, Daniel Fota, Fiorello Miguel Lebbiati, Rasid Nicolic, Antonio Calone, Peter Chappell), che, con un’altra ventina di ragazze e ragazzi, ha seguito un laboratorio teatrale e di scrittura collettiva.
In un paio di momenti, durante la riflessione collettiva sulla propria esperienza di vita, l’emozione ha il sopravvento sulla lucidità (peraltro impeccabile anche dal punto di vista storico, sociologico, politico) dell’analisi. Ma non c’è nulla di artefatto, né di pietistico. Anzi: come in pochi altri casi qui è del tutto assente il paternalismo di chi pretenderebbe di raccontare realtà come queste da lontano o, peggio, dall’alto di una presunta superiorità culturale e civile. Potrebbe essere un esempio, forse indiretto, ma non per questo meno significativo, di come, nella scuola e nei contesti educativi, l’apertura al dialogo e la disponibilità all’ascolto della presa di parola dei ragazzi e delle ragazze possono dare risultati di notevole interesse.
Sono loro che parlano di sé, senza infingimenti o imbellettamenti, a volte in modo persino spudorato. Con piena coscienza sia delle ragioni storiche che di quelle sociali della propria condizione.
Lala e Zaga, i loro compagni e le loro compagne, fuori e dentro la messa in scena, scardinano con la forza dei loro volti (con intensissimi primi piani) e delle loro parole quasi tutti i luoghi comuni e i pregiudizi che ancora troppi di noi si portano dentro e, a volte, comunicano in modo violento. Lala e Zaga (che sono anche, sempre, Zaga e Samanta), corrono insieme, mano nella mano, nelle vie del Quarticciolo, ma non per darci la consolazione di un finale luminoso e pacificatorio, ma per ricordarci che non hanno intenzione di fermarsi, di crogiolarsi nell’autocommiserazione e nel vittimismo.
Non perse, non dimenticate, non espulse da un sistema di istruzione che le vorrebbe fuori, ma pronte, anche grazie alla cultura imparata sui libri e a quella appresa nella vita quotidiana, a provare a trasformare un mondo alla cui cattiveria non intendono arrendersi.
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