Delicato come i petali di Sakura, deciso come il Monte Fuji, caldo come le sorgenti termali di Hakone ma anche freddo come le notti di Hokkaido. Il Giappone più vero e autentico è spesso racchiuso in un bicchiere di sakè, bevanda ottenuta dalla fermentazione del riso che ha una tradizione antichissima. Oggi la bevanda è diffusa in tutto il mondo e non mancano anche i “sakè made in Italy”, che sfruttano la grande produzione di riso presente soprattutto nel Nord Italia.

Nelle risaie italiane

«Produco il mio sakè in una sakagura certificata, cioè uno stabilimento riconosciuto per la produzione: è l’unica presente in Italia», racconta Nicola Coppe, primo toji (termine giapponese che indica il capo della produzione) italiano che produce il suo “Riso sakè” a Feltre, in provincia di Belluno.

La sua vita è ormai quasi “dedicata” al riso: «In questo periodo vivo con il riso, sono quasi schiavo: se si vuole produrre il vero nihonshu, cioè il sakè in stile giapponese, bisogna seguire costantemente il processo di fermentazione del koji», racconta Coppe, evidenziando la differenza che c’è tra il sakè, nome generalmente attribuito a una bevanda alcolica, e il nihonshu, cioè quello prodotto in Giappone con regole specifiche. Una differenza non banale, visto che il sakè generalmente inteso spesso può prestarsi anche a contaminazioni. A Feltre, infatti, si produce anche “Pila”, il sakè di Stefano Albertin.

«È grazie all’aiuto di Nicola che produciamo la nostra bevanda, ottenuta dal riso Carnaroli IGP del Delta del Po. Lo sparkling sakè che produciamo, però, ha una piccola aggiunta ed è il luppolo americano, prodotto sui Colli Veneti, usato nel processo produttivo per aromatizzare», racconta Albertin, originario di Porto Viro, paesino in provincia di Rovigo che vive in simbiosi proprio con il delta del fiume Po.

Si ispira invece a un celebre prodotto locale, il vermouth, il sakè “Nero”, prodotto dall’azienda agricola “Gli aironi”, in provincia di Vercelli. «Noi partiamo da una base completamente diversa rispetto a quello tradizionale: usiamo infatti il riso Penelope, di colore nero e dal sapore importante, proveniente dalle risaie vercellesi. Dopo il processo di fermentazione, tipico dei sakè, operiamo una fortificazione ispirata al processo di produzione del vermouth. Il risultato è un incrocio tra questi due prodotti», racconta Michele Perinotti, titolare dell’azienda agricola e creatore di “Nero”.

La ricerca e gli ingredienti

Se per le versioni contaminate si seguono spesso processi diversi, per il vero sakè, invece, ci sono regole precise da conoscere. «Abbiamo aperto la sakagura nel 2020, dopo un anno di ricerche sulle modalità alternative di utilizzo del riso e sulle varie tipologie: alla fine, abbiamo scelto il riso Carnaroli, perché si presta perfettamente al processo di levigatura del chicco e conserva tutto l’amido nel suo cuore. Sembrerà strano, ma in una bevanda dove anche le sfumature possono incidere sul gusto finale, visto il numero di ingredienti ridotto, il grado di raffinazione del chicco incide tantissimo sul risultato», racconta Coppe.

Come nel vero sakè, a dare quel gusto di umami (termine giapponese che significa “gradevole al gusto”) è il koji, il jolly della cucina giapponese. Si tratta di una spora che si fa sviluppare su riso cotto precedentemente raffreddato: in questo modo il riso avrà quegli enzimi tali per permettere la degradazione rapida dell’amido in zucchero, da cui poi, tramite la fermentazione, si otterrà il prodotto alcolico.

«Il koji è il motore della produzione del miso, del sakè e anche di altri prodotti: in Giappone si dice che non è sakè se non c’è almeno il 15 per cento di koji. La sua fermentazione, come anche le successive fasi di lavorazione del prodotto, sono le ragioni per le quali viviamo in funzione del sakè: ci sono lavorazioni che ci portano a dover essere operativi ogni quattro ore. Sono produzioni che spesso richiedono un lavoro manuale e durano anche due mesi: io per primo dormo nella sakagura cinque o sei giorni al mese per seguire bene i tempi delle varie fasi», sottolinea Coppe.

A incidere nella produzione ci sono anche altri fattori, come l’acqua e il freddo. «Rispetto al Giappone, dove si produce sakè tutto l’anno, qui concentriamo la produzione soprattutto di inverno, per favorire l’igiene e l’esposizione del riso e avere facilmente le temperature molto basse necessarie per la fermentazione.

Non è un caso, infatti, che la sakagura sia a Feltre, luogo molto freddo d’inverno e con un’acqua non clorata che scende direttamente dalle Dolomiti. L’acqua è importante: il riso viene cotto a vapore ma poi va aggiunta, perché serve per sciogliere gli zuccheri. Non ne serve molta, circa 1,3 o 1,6 litri ogni chilo di riso inserito, ma più acqua metto, più il grado alcolico sarà basso», evidenzia. Il risultato? «Quello che produciamo è uno sparkling sakè leggermente spumantizzato che segue il procedimento proprio del nihonshu, ma con il lievito usato per il Trento Doc», conclude Coppe.

Diverso, invece, il processo per la produzione di “Pila”: «Il nostro sakè nasce nel 2020, in pieno lockdown, quando io e mia moglie Barbara abbiamo deciso di valorizzare le coltivazioni di riso presenti intorno a noi. Anche il nome, Pila, richiama il nome del paesino dove un tempo si impilava proprio il riso mandato verso le ville venete per essere lavorato», ricorda Albertin. Nonostante la presenza del luppolo americano, il processo produttivo non è molto differente da quello classico.

«Come avviene per le altre lavorazioni, anche qui il riso viene sbiancato, in questo caso al 60 per cento e si utilizza il koji per la fermentazione. Quello che esce fuori è un prodotto alcolico, intorno agli 11 gradi, dal gusto molto simile a un prosecco», racconta il creatore di “Pila”. Totalmente diverso, invece, il processo alla base di “Nero”, dove risulta assente il motore del sakè tradizionale.

«La fermentazione non avviene con il koji ma per saccaromices diretta: il prodotto assume un grado alcolico prima di 13 gradi e poi, tramite la fortificazione, di 17 gradi. È un vero e proprio incrocio: del sakè porta il gusto deciso, del vermouth tutte le caratteristiche aromatiche. Anche se il processo di lavorazione si discosta da quello del sakè tradizionale resta giusto definirlo così, visto che il nome si applica generalmente a qualunque “bevanda alcolica”. In Italia non ci sono denominazioni alternative», sottolinea Perinotti.

L’accettazione e i giudizi

Non sempre il sakè è stato compreso. «All’inizio la città non ci conosceva: facevamo distribuzione tramite rivenditori specializzati e avevamo uno shop online. La storia è cambiata quando abbiamo aperto “Fermentazioni”, il nostro locale, dove serviamo cibo e il nostro sakè anche ai feltrini. Non è stato facile farlo accettare: un tempo, quando ci chiedevano un vino bianco frizzante e noi proponevamo il nostro sakè, i clienti non lo accettavano ma poi, dopo averlo assaggiato, cambiavano idea. È stato un modo per abbattere un pregiudizio, ancora oggi diffuso e che nasce dalla differenza tra il servirlo caldo e il servirlo freddo», sottolinea Coppe.

Non molto diversa la storia a Porto Viro. «Quando ho iniziato a servirlo nella mia birreria, “Capolinea 309”, ho dovuto dire che non era sakè per superare le diffidenze iniziali: dopo i complimenti sulla qualità del vino e i suoi sentori di fiori d’arancio, spiegavo che in realtà era un fermentato prodotto dal riso», ricorda Albertin.

«Certamente non è un sakè tradizionale, ma anche noi abbiamo notato subito un certo apprezzamento, anche da parte dei giapponesi, che hanno notato l’impronta umami ma anche la forte italianità», sottolinea Perinotti. Produrre sakè in Italia non è facile: a Feltre lavora anche Hoshitaro Asada, il primo giapponese che lo fa nel nostro paese. «Un progetto incredibile il suo», racconta Coppe che lo ospita, «che però ha di fronte tante difficoltà, logistiche ma anche di trattamento del prodotto: produrre sakè in Giappone non è come produrlo in Italia».

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