Vincitore del premio Campiello con La forza del passato – Bompiani 2000 –, del premio Strega – con Caos calmo, Bompiani 2005, e con Il colibrì, La nave di Teseo 2019; dopo Paolo Volponi, è il secondo autore a vincerlo due volte – e di molti altri, dal Viareggio al Bergamo, tradotto in più di venti lingue e più volte trasposto al cinema, Sandro Veronesi è tra i più grandi scrittori italiani.

Lo scorso ottobre è uscito Settembre nero, per La nave di Teseo, il suo nuovo romanzo. Ed è la storia di Gigio Bellandi, dodicenne, che a Versilia, nell’estate del 1972, scopre la lettura, la musica e, soprattutto, l’amore. Scoprendo pure però che il mondo degli adulti, verso cui si era sempre diretto senza particolare angoscia, è, in realtà, più complicato e, per certi versi, oscuro di quel che credeva.

Nei suoi romanzi, Veronesi, spesso, c’è un personaggio che si muove senza muoversi – o che si muove lentamente. In Il colibrì Carrera – proprio come il colibrì, appunto – vive muovendosi freneticamente per rimanere saldo, in Caos calmo Paladini va avanti restando nello stesso luogo – di fronte la scuola della figlia. I suoi protagonisti si muovono da fermi: perché?

Me ne sono reso conto soltanto scrivendo Il colibrì, che, in fondo, è il simbolo del movimento da fermo. Riflettendoci, però, mi pare chiaro che debba essere così. In effetti, il mondo si muove, va avanti, il tempo scorre, e tu, pur restando fermo, ti ritroverai sempre in un posto diverso da quello in cui eri, proprio per il suo procedere.

Si è reso conto di scriverne con Il colibrì, mi ha detto, ma quando ha preso consapevolezza di questo meccanismo? Nella vita, nella realtà, intendo.

L’ho capito tramite la politica. Da ragazzo ero socialista, e votavo De Martino con grande convinzione – poi il partito divenne una proprietà privata di Craxi, e cambiò tutto. Da allora non sono cambiato molto, le mie idee politiche sono, sostanzialmente, rimaste le stesse eppure oggi mi ritrovo a essere percepito e a percepirmi come una persona parecchio a sinistra. Ecco, vede? Non mi sono mosso, ma il mondo sotto ai piedi sì e io, per forza di cose, sono dove non ero prima: mi sono mosso anch’io, in qualche modo.

Lo stesso, suppongo, vale per la narrativa, per le storie.

Non è necessario, a mio avviso, che un personaggio faccia poi tante cose: sarà il contesto attorno a lui a cambiare, e lui dovrà reagire.

Ancora sul muoversi restando fermi. In Settembre nero un uomo prova a salvare due bimbi che affondano nelle sabbie mobili e, per farlo, si muove molto lentamente.

Lì c’è pure il tentativo di manifestare un’idea di poetica, di narrazione. Questo nuovo protagonista, Gigio Bellandi, sta cercando di ricordare, vale a dire che, lentamente, sta cercando di recuperare qualcosa da un paesaggio che smotta. La memoria, in fondo, è questo: un paesaggio che, pian piano, cede.

A proposito di Bellandi, personaggio principale, e narratore, di Settembre nero. Da adulto lavora come traduttore, è un intermediario. Da bambino, origliando dietro le porte delle stanze della casa, è spesso testimone di ciò che i genitori fanno o dicono. Bellandi è spettatore delle vite altrui?

In qualche modo, sì. E però in qualche modo lo siamo tutti, no? A ripercorrere la mia carriera, tra l’altro, credo salti all’occhio che tra tutti i miei protagonisti ce n’è uno soltanto che fa lo scrittore ed è Gianni Orza di La forza del passato. Tutti gli altri sono persone che cercano di capire, sono dei testimoni, compito loro è transducere – portare aldilà. Sì, Bellandi è un traduttore e un testimone, ma lo sono tutti i miei protagonisti.

Perché questa tradizione?

Perché non mi sono mai sentito uno che fa la storia. C’è un solco, io entro nel solco. Mi riconosco di più nei personaggi che vedono, testimoniano, origliano che in quelli che agiscono di loro iniziativa.

A proposito. Gigio, strisciando sotto le cabine al mare, arriva fino a quella della propria famiglia e, spiando, vede la madre, la sente dire qualcosa di poco chiaro.

È un episodio importantissimo, quello, e non l’avevo pianificato, in realtà. La mia idea iniziale era di farlo strisciare sotto le cabine facendogli provare molta più difficoltà dell’anno precedente. Sei cresciuto e sei più grande - questo è il significato. Poi, però, una volta laggiù con lui, con Gigio, mi sono detto: okay, andiamo più avanti, continuiamo a strascicarci, indaghiamo, più in là mi pare ci sia qualcosa d’interessante. Così ho fatto. Assieme a Gigio, ho strisciato, là sotto le cabine, e con lui ho spiato sua madre.

Lei procede sempre così? Scrive senza sapere dove andrà a parare?

Non sempre, certo, però molti, moltissimi episodi nascono così, sì. È un modo di procedere naturale, per me. Non prevedo perché so, per esperienza, che ciò che c’è di più significativo sorge spontaneamente, nell’atto dello scrivere. Per questo penso che non possiamo fermarci al mero dato di realtà, che dobbiamo cercare di andare oltre, inventare. La letteratura è simbolo, è metafora. Il reale e la sua riproduzione non bastano.

Mi spiega?

Prenda Profezia (RCS 2011, ndr). In quel libro racconto un’esperienza molto dura: l’accudimento dei miei genitori nel periodo in cui erano malati e la loro morte. È stato un momento difficilissimo. Dovevo somministrare loro le medicine in casa, ché non volevano andare in ospedale, prendermene cura in modo attento e scrupoloso, portarli a fare la chemio. Quindi finita quell’esperienza mi sono reso conto di aver vissuto qualcosa che meritava di essere scritto, raccontato, però, mi sono detto subito, il dato di realtà non bastava. Certo, qualcuno dopo aver letto mi avrebbe detto ci sono passato anch’io, mi sono riconosciuto, ma non è sufficiente: la letteratura è altro.

Dunque?

Dunque mi sono fermato a pensarci. Cosa mi è successo? mi sono domandato. Sono diventato orfano. Che vuol dire diventare orfani? Vuol dire la fine di un mondo, la fine del mondo da figlio. Quindi? Quindi è un’apocalisse. Ho riletto l’Apocalisse di Giovanni, ho notato che era scritta al futuro e ho deciso che il libro non sarebbe stato un libro di memorie ma, scritto al futuro, una profezia.

Tornando al romanzo. Gigio s’innamora ma la bambina, a un certo punto della storia, lascia la propria casa al mare – sparisce, in effetti. Cosa resta a Gigio di quell’esperienza?

Dolore, ma anche una certa bellezza, per quel che ha avuto con quella bimba, e gli strumenti per poter affrontare, in futuro, qualcosa di simile. La perdita a volte paralizza, può succedere, mentre io credo la si debba sfruttare, e che non ci si debba crogiolare nella sofferenza. Bisogna rimettersi in piedi, riprendere a dare energia vitale a quel che si fa, tornare a godere della vita. L’accettazione è importante secondo me. In questo romanzo io racconto il germogliare prima della gelata, qualcosa che è possibile fare ancora e ancora – anche se la gelata ci ha modificati, cambiati.

Ci riesce lei? A non crogiolarsi nel dolore per rinfondere energia vitale in ciò che fa, in ciò che è?

Ci sono riuscito. Non sempre e sempre con fatica, ma ci sono riuscito.

In Settembre nero le piccole tragedie di Gigio Bellandi sono contenute nel contesto più vasto di una grande tragedia, che coinvolge tanta altra gente. Perché questo modo di costruire i disastri? Perché infilare un’apocalisse intima, privata in una come quella di un attentato terroristico?

Perché succede – ci può succedere. Il 2020 è stato un anno terribile per l’intero mondo, la Pandemia ha ucciso tantissime persone, chiuso aziende, diviso pure delle coppie, sfasciato dei matrimoni. Nel frattempo, però, Il colibrì aveva un enorme successo: il libro piaceva, vendeva, vinceva dei premi – sarebbe anche arrivato lo Strega, poi. Ecco, io sentivo dentro un conflitto gigantesco: da una parte la tragedia dall’altra una cosa bellissima. La Storia ha in sé le nostre vite intime, a volte coincide con il nostro privato, a volte no, e dobbiamo imparare a misurarci pure con questa dimensione

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