Quando arrivano il dubbio, lo sconforto, quando l’inaggirabile domanda sul senso di scrivere – di scrivere romanzi – proietta la sua ombra sulla scrivania, mi capita di pensare all’energia di uno scrittore che ha modellato e rimodellato nel nostro presente il romanzo-romanzo, chiamiamolo così per comodità. Penso a Sandro Veronesi (Firenze, 1959). Due volte Premio Strega, unico insieme a Paolo Volponi a fare il bis al Ninfeo di Villa Giulia. Laureato con una tesi che teneva insieme i suoi studi di architettura e Victor Hugo, debuttò sotto l’ala di Grazia Cherchi (che incoraggiò lui e l’altro Sandro della narrativa italiana, Baricco) per i tipi di Theoria, casa editrice di gran fermento sul finire degli Ottanta e nei primi Novanta.

Se prendo Caos calmo (2005), romanzo di inizio XXI secolo diventato un film con protagonista Nanni Moretti, sento che arriva lì, sulla soglia del Duemila, a dirci: si può fare ancora, si può fare credendo in questo gesto “impuro”, che tiene insieme ingredienti diversi, tonalità, strati della lingua. Un’energia da romanzo “ottocentesco”, non sfibrato, non intellettualistico, nella corporalità del romanzo novecentesco proiettato su una strada nuova.

L’aria di fine Novecento quando ha condizionato la stesura di quel romanzo? Ci pensavi? La sentivi?

Non solo ci pensavo, ci penso. La verità è che sono sempre lì. Ora ho la fortuna di essere vecchio, ed essendo vecchio ho fatto in tempo a conoscere il Novecento letterario di persona. Dici niente, ma andare a cena con Moravia, conoscere gente come Sciascia, Alberto Arbasino, e di più, trascriverne i pezzi per Nuovi Argomenti – erano testi infotocopiabili, con ritagli incollati su fogli di formati diversi… ecco, tutto questo ha avuto un gran peso. Questa roba qua ha determinato quello che sono. Quello che sono stato e sono ancora adesso. Tutto viene da un tempo in cui uscivo, facevo cose, vedevo gente. Ed era così per molti di noi.

Poi, a un certo punto, siamo rincasati tutti: le riviste hanno perso in larga parte il loro supporto di carta, le riunioni di redazione – momenti fondamentali di incontro, di scambio, di invenzione, di dibattito – sono passate dalle stanze fisiche al “da remoto”. Ma io per certi versi sono rimasto laggiù. È come avere un arto fantasma, hai presente? Ti amputano un braccio, però tu continui a sentire qualcosa.

Ecco, posso dirla così: il Novecento, il Novecento letterario è il mio arto fantasma.

Se dico romanzo-romanzo mi riferisco alla tua fiducia in una forma di narrazione di respiro ampio, “inclusiva”, ma ha ancora senso l’aggettivo borghese – lo chiedo a te che ti sei laureato su Victor Hugo – per indicare un certo tipo di romanzo?

Ha senso perché è indiscutibile il legame della forma romanzo con l’avvento della borghesia sulla scena europea del diciannovesimo secolo. Prima, era impensabile che protagonista di un libro fosse una signora di campagna che si perde nella grande città. Come nella realtà sociale la borghesia ha ridotto lo spazio dell’aristocrazia, così nella narrazione gli aristocratici e i militari sono stati via via sostituiti da medici, impiegati, giornalisti, studenti. I romanzi novecenteschi hanno registrato la lunga crisi della borghesia frammentando la narrazione, rendendo l’io pulviscolare. Ma credo che il racconto non sia finito, e che una mentalità “borghese” non sia necessariamente un difetto.

Il Colibrì (2019) ebbe – al di là del premio – un’accoglienza speciale. Forse c’entrava anche la sensazione di una tua ulteriore, convinta scommessa sul romanzo-romanzo?

Sì, credo sia stata apprezzata la mia fede manifesta e senza cedimenti nel romanzo. Una fede un po’ all’americana, che non ignora l’eterno dibattito sull’esaurimento delle forme ma in ogni caso non lo trascina dentro al racconto. Il Colibrì non è memorialistica, non è metaletteratura, non è costruito intorno a un nucleo saggistico.

È appunto un romanzo-romanzo, che forse è riuscito anche a rinfrancare qualche collega diventato più scettico. Detto questo, non c’è stata un’accoglienza così calorosa per altri miei romanzi, e sono su piazza da tre decenni e mezzo. Molti lettori mi hanno detto di avere pianto: ecco, credo che quando un romanzo smuove emozioni forti, quando porta i sentimenti di chi legge all’estremo, batte una strada speciale.

Un racconto tuo che mi spezza al solo pensiero (oltre a Profezia e a Addio bambino Francesco, che forse conoscono in pochi) è Sotto il sole ai Campi Elisi. Forse pure perché parla del sentirsi a pezzi, spezzati, divisi, combattuti, spaccati, nel cuore della giovinezza. C’è l’amicizia, la vocazione letteraria, lo scompenso fra ambizione e esito, concretezza. Vorrei chiederti quanto ti senti diverso dal Veronesi del 1988. Ovvio che lo sei, domanda tautologica, eppure: come si tiene viva l’ostinazione a scrivere per tre decenni e mezzo? Qual è il carburante dietro la tua ricorrente epigrafe beckettiana “Non posso continuare. Continuerò”? In altre parole, perché ti interessa continuare? Che cosa cerchi?

La fede di cui parlavo prima non è di natura ideologica, se vuoi posso definirla convenzionale; e in ogni caso il punto è che ritengo il romanzo un genere non-genere molto versatile, capace di accogliere qualunque possibile scelta stilistica e soluzione narrativa. Quando avevo più o meno l’età del protagonista del racconto che hai citato, facevo il redattore di Nuovi Argomenti e mi capitò per le mani un’edizione speciale di Libération che aveva pubblicato cento risposte di altrettanti scrittori all’eterna domanda “perché scrivete?”. La famiglia alla quale credo appartenga la mia risposta credo sia proprio quella di Beckett. Lui disse: “Non so fare altro”. Ecco, io ho imparato o credo di avere imparato, come tutti, a fare parecchie cose pratiche, occuparmi della casa, portare i figli a scuola, ma scrivere, scrivere mi sembra la cosa che so fare meglio. E mi sono convinto che dovessi sostituire la scrittura con qualunque altro hobby, lo farei comunque peggio.

Risaliamo alle origini. Per dove parte questo treno allegro (1988): la lingua che hai scelto (o trovato) per il tuo esordio è una lingua “detta a voce”, in qualche modo parlata ma rifinita letterariamente, ovvero non mimetica, non buttata lì come una sbobinatura. Che lavoro ha richiesto? Quanto istinto, quanta consapevolezza?

Se penso a quella stagione, ti dico che non mi sentivo uno che trascinava, uno che trainava, ma semmai uno che seguiva. E in questo senso ero nel solco di narratori che avevano deciso di dare una sistemata alla lingua letteraria, di smuoverla. D’altra parte, il rischio è scrivere sempre come Verga, che è un bello scrivere, però… Andare dietro alla lingua parlata non richiedeva insomma uno sforzo particolare, semmai un “sentimento”, della lingua e quindi del mondo.

Nella seconda metà del secolo scorso, includere il parlato nella lingua letteraria, con le sue sporcature, le sue cadenze, è stato percepito come inevitabile. Non solo da me, ma dalla maggioranza degli scrittori. Poi c’è da aggiungere che sono toscano, e non credo sia un dato irrilevante: mi ha formato il parlato nel quale son cresciuto, il birignao della mia maestra delle elementari che diceva “dianzi”, diceva “desinare”, usava un italiano che per un siciliano come, che so, Vincenzo Consolo rappresentava una scelta radicale di grande consapevolezza e per quella maestra era naturale. Respirare questa lingua ha contato. In quel mio romanzo d’esordio tutto parte e si srotola da una parola molto precisa: babbo. L’incipit dice: “Il babbo splendeva in un abito grigio, i capelli grigi e fini sollevati dal vento…”. Babbo è una parola chiave, babbo è anche “abba”, è proprio un inizio, e ci sta che uno si aggrappi a quello per scalare una montagna, la montagna della sua propria lingua letteraria. D’altra parte se i figli “romani” mi chiamassero papà non mi volterei. E babbo è una parola che quando arrivai a Roma destava qualche sorrisetto, quasi lo stesso che appariva sui volti dei miei interlocutori se dicevo “codesto” o “costì”. Ma non erano ricercatezze, mi venivano spontanee. Come, per dire, l’uso di “inteccherito” in una pagina di Caos calmo. Fece sobbalzare Tullio De Mauro, che – mi disse – non aveva mai incontrato l’espressione. Significa intirizzito, si dice dello stoccafisso, del baccalà. Non ci avevo fatto chissà quale ragionamento intorno, né volevo percuotere volontariamente le abitudini linguistiche dei miei lettori e tanto meno intendevo aggiungere un vocabolo al vocabolario di De Mauro, figuriamoci. Mi è venuto naturale.

Questo a dimostrazione del fatto che non tutto è consapevole, nemmeno quando hai già superato i quarant’anni. La consapevolezza matura col tempo e in un certo senso non smette mai di maturare.

In un romanzo di Bassani o di Cassola, e ovviamente di Calvino, anche solo la parola cazzo era impensabile (nel secondo Moravia fallocentrico invece c’è eccome). Invece nei tuoi romanzi il lessico è stratificato, alto basso medio, una mescolanza che non teme la disarmonia. Ancora oggi qualche lettrice o lettore colto esigente manifesta insofferenza per quelle che considera “cadute di stile”. Che bisogno ha di usare certe parole?, mi sono sentito dire io stesso qualche volta. Il mio alibi mentale è l’impasto linguistico di romanzi come i tuoi.

L’anno dopo la vittoria di Caos calmo allo Strega furono digitalizzate le opere premiate nel corso dei decenni. Questo permise agli studiosi di lingua di fare campionature statistiche sulla ricorsività di lemmi o locuzioni. Venne fuori che trionfavo proprio per l’uso della parola “cazzo”. Era in sostanza il romanzo, nella storia dello Strega, in cui compariva più spesso. Dunque c’era un terreno – l’unico – su cui avrei potuto sfidare Pasolini e Calvino, che peraltro non hanno vinto lo Strega.

L’anno dopo il record mi fu strappato da Niccolò Ammaniti, e forse solo con il primo capitolo di Come Dio comanda. In ogni caso, un romanzo assorbe e deve assorbire ciò che c’è intorno, comprese le parolacce. Che oggi potrebbero essere quegli orrendi anglicismi in uso nelle aziende, o che infarciscono i comunicati stampa. Inserirli in un romanzo letterario richiede comunque un’elaborazione, non è un semplice travaso. La lingua letteraria non è solo le parole, è il modo in cui la metti insieme. A proposito del classico Bassani: ho trovato di recente una vecchia edizione del Giardino dei Finzi-Contini a otto euro. Non lo rileggevo da anni. Mi sono accorto di quanto io abbia imparato, forse senza accorgermene, anche dalla lingua di Bassani, che è ricca, ha sequenze di due punti, punti e virgola, parentesi, incisi, tutte strategie per non arrendersi alla sconfitta del punto fermo. Forse all’epoca era da una lingua così educata che volevo allontanarmi… Ma oggi ne riconosco l’intensità e lo splendore, e so di esserne stato influenzato.

«Mentre Mète risponde al telefono, approfittiamone per spiegare chi è questo Dani. È un personaggio molto singolare…». Gli sfiorati (1990). Mi interessa molto quell’approfittiamone. Implica uno sguardo distante e prossimo allo stesso tempo, una voce fuori campo che osserva ironica e partecipe i movimenti dei personaggi. Curiosamente, il 1990 è anche l’anno della morte di Moravia, che fece in tempo a recensirti. Richiamando la vecchia distinzione fra romanzieri (narratori) e scrittori. Per te ha senso?

La Capria dice che sei fra quelli che «hanno ricominciato a scrivere romanzi con fatti e personaggi». Ma proprio negli Sfiorati, romanzo peraltro molto digressivo, un po’ giochi a inserire una “distanza” dai fatti e dai personaggi…

Il più delle volte ho cercato di mettere lo stile a servizio della storia e dei personaggi, rigorosamente inventati: il contrario di quello che va di moda adesso. C’è stata una lunga stagione in cui se scrivevi un libro fatto solo di cazzi tuoi te lo tiravano dietro: bisognava imparare a dissimulare, a giocare con la finzione. Ma è vero anche che mi sono divertito con la digressione, con l’esercizio di virtuosismo stilistico: penso, più ancora che agli Sfiorati, a Venite venite B-52, forse il mio libro che ha avuto meno attenzione. Poco letto, non tradotto… Un po’ me ne dispiace, perché non mi sembra riuscito male, anzi.

Lì sì provavo a far valere il mio intento di mangiarmi tutto con la scrittura, lasciandola agire anche in modo talvolta fine a sé stesso. Penso in assoluto che in un romanzo uno scrittore debba rappresentare qualcosa di più ampio di ciò che gli viene facile o gli riesce meglio.

A proposito invece di struttura, di architettura narrativa: quella del Colibrì è fatta di segmenti, con un cursore temporale che si muove di continuo avanti e indietro. Quanto conta questa operazione di montaggio?

Non parlerei di montaggio. Il romanzo è stato scritto così come il lettore lo legge. Ma d’altra parte, quando due persone si conoscono come si raccontano l’una all’altra? Non certo partendo dalla data di nascita. Non si parte dall’inizio, si parte da una scena. Non è montaggio: è racconto.

Stai lavorando a un nuovo romanzo?

Sì, sono alle prese con un capitolo particolarmente delicato e difficile di un romanzo, e poiché per via delle contingenze familiari non ho molto tempo per scrivere quando mi siedo al tavolo trascuro tutto il resto pur di andare avanti. Sarà un romanzo con una voce più tradizionale. Notizia: non c’è nemmeno una parolaccia! Stavolta mi interessa questa sfida inconsueta, provo a ripulire dal parlato la lingua letteraria».

Paolo Di Paolo è autore fra l’altro di Dove eravate tutti (2011), Mandami tanta vita (2013) e Lontano dagli occhi (2019, Premio Viareggio). L’ultimo romanzo, fra i dodici semifinalisti del Premio Strega 2024, è Romanzo senza umani (Feltrinelli).

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