Vediamo forse un nesso tra l’inizio della guerra in l’Ucraina e la rapidità con la quale Memorial è stata chiusa? Sì, certo, ma lo abbiamo capito solo dopo. Mentre il nostro processo era ancora in corso, le truppe si stavano già spostando verso il confine. Ma noi, come molti nel Paese e nel mondo, non volevamo ancora crederci, ci rifiutavamo di credere che tutto ciò fosse possibile.

Per questo i nostri colleghi, soprattutto i più giovani, avevano ancora la speranza che saremmo stati in grado di difenderci. Bastava guardare tutto il sostegno che avevamo; gli avvocati che ci difendevano e il modo in cui intervenivano in tribunale. In effetti, da come i nostri avvocati si muovevano e da come apparivano in pubblico, l’impressione era che non potevamo non essere ascoltati!

Al confronto, pareva che i pubblici ministeri non avessero più nulla da dire. Ma alla vigilia del nuovo anno, il 28 dicembre 2021, c’è stata una seduta della Corte Suprema in cui è stato emesso un ordine di liquidazione di Memorial. E in quella seduta il discorso del pubblico ministero non verteva più sul fatto che Memorial venisse liquidato – come sosteneva l’accusa originaria – per aver violato la legge sugli agenti stranieri, ora invece si sosteneva molto più direttamente: “Voi state creando l’immagine di uno Stato terrorista. Voi state educando i giovani in un modo sbagliato”.

E a tutti fu immediatamente chiaro che quella era una decisione politica, la cui stessa formulazione aveva lo scopo di distruggerci. Era insomma necessario liquidarci e sgomberare così il campo per soffocare eventuali proteste contro la guerra.

La telefonata di mia figlia

Con il senno di poi, ovviamente, possiamo sempre dirci che in qualche modo ci stavamo aspettando la catastrofe del 24 febbraio. Alle 4 del mattino, quel giorno mia figlia Lisa mi chiamò da Berlino – e ciò che mi disse sembrava una cosa davvero incredibile, come se fossimo tornati al 1941: «Mamma, hanno iniziato la guerra. Kiev è stata bombardata».

Sempre col senno di poi ci si può ancora chiedere: ma come potevamo sperare che tutto ciò non sarebbe accaduto? Dopo tutto, era da mesi che, con la scusa delle esercitazioni, le truppe russe si stavano ammassando sul confine. E noi stessi non facevamo altro che ripeterci: di sicuro non vorrà attaccare ora, durante le Olimpiadi; o: non vorrà rovinarsi le relazioni con i cinesi.

Di quei momenti mi torna ora in mente un’immagine di Putin: se ne sta seduto da solo, su uno sfondo di sedie rosse, avvolto in un lungo cappotto nero. È un uomo piccolo, ma con un volto malvagio, e in fondo anche così anonimo. Eppure, noi continuavamo ancora a non credere alla guerra, perché chiunque avesse avuto anche solo una vaga idea dello stato d’animo in Ucraina avrebbe dovuto capire che quello sarebbe stato un passo terribile e disastroso per la Russia.

O almeno a me pareva che ogni persona normale avesse potuto comprendere tali conseguenze. Nei miei social network in effetti, nella cosiddetta “bolla delle persone normali”, tutti si ritrovavano ora in un terribile stato di shock, con la sensazione orrenda che tutta la loro vita fosse ormai crollata a pezzi.

Le proteste

All’inizio, durante i primi giorni del conflitto, e soprattutto a San Pietroburgo, molti sono scesi spontaneamente in piazza per protestare contro la guerra – e le autorità hanno subito reagito con crudeli pestaggi e arresti. In realtà, la censura di guerra era già stata introdotta, e la stessa parola “guerra” non doveva essere affatto pronunciata – quella in corso era solo “un’operazione militare speciale”. Di fatto, gli ultimi media indipendenti ancora rimasti attivi nel Paese sono stati chiusi.

E pochi giorni dopo l’inizio della guerra, mi recai di mattino presto alla sede di Memorial, che era stata già formalmente liquidata dalla Corte Suprema. Ma trovai i nostri due edifici già sigillati dalle forze speciali di polizia; era impossibile accedervi visto che nei nostri spazi ci fu una perquisizione che durò 15 ore. Per quanto ci fossimo in qualche modo preparati a un simile evento, ci era impossibile ora esser davvero pronti ad affrontarlo.

La passeggiata con il cane

La mattina del giorno seguente sono uscita con il cane a fare una passeggiata intorno a casa, nelle vie del nostro quartiere dove vivono medici, specialisti di informatica, piccoli imprenditori, insomma normali moscoviti con un’istruzione superiore. E le voci che sentivo per strada furono un altro shock: «In Ucraina ci sono i nazisti, e dobbiamo sconfiggerli rapidamente».

Quando sono tornata a casa, ho trovato un link nella nostra chat di famiglia: era un biglietto per Tel Aviv, ma mi sono detta che io comunque non sarei andata da nessuna parte. Non ho mai avuto intenzione di lasciare la Russia, nemmeno nei tempi più bui di Breznev. Poi però ho iniziato a provare un senso di odio e di impotenza che probabilmente non avevo mai provato, nemmeno nel ’68 quando i carri armati sovietici entrarono a Praga.

Era un sentimento così forte e così pieno di disperazione che ho pensato: «Se non me ne vado adesso, impazzirò se resto qui». E ho gettato le cose nella mia valigia come in preda al delirio, senza rendermi conto che in Israele non ne avrei avuto neanche bisogno. Le uniche cose di cui avevo veramente bisogno erano i documenti di famiglia – quei certificati di matrimonio e di nascita, che ho usato per iniziare a scrivere questo libro. In particolare, il certificato di nascita di mia nonna a Starodub.

La partenza

L’aereo era pieno fino all’ultimo posto, sembrava un esodo. L’intero bagagliaio era pieno di cani e gatti che lasciavano le loro case con i loro padroni. Secondo alcune stime, solo nelle prime settimane dopo l’inizio della guerra, diverse centinaia di migliaia di persone hanno lasciato la Russia.

All’aeroporto Ben Gurion fui accolta dall’intera famiglia di mia sorella, anche se tutta la situazione mi sembrava completamente irreale. La nostra storia in Russia è dunque finita? Non riesco a crederci… Ma forse è proprio questo ciò che hanno creduto tutti coloro che negli ultimi cento anni hanno dovuto lasciare la loro patria. Il nostro appartamento a Mosca, in ogni caso, l’abbiamo semplicemente chiuso a chiave.


Estratto dal libro Le mani di mio padre. Una storia di famiglia russa (Mimemsis) di Irina Ščerbakova, tra le fondatrici dell’associazione Memorial, considerata agente straniero dal governo russo, nel 2022 premiata con il premio Nobel per la pace. Presenterà in anteprima assoluta il suo nuovo libro “Le mani di mio padre” al Festival Mimesis di Udine venerdì 25 ottobre alle 17 in Torre di Santa Maria, in dialogo con Stefano Vastano. 

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