- Da che io ricordi, ho sempre voluto fare la scienziata. Ho anche sempre inventato storie, ma, per qualche ragione, non ho mai pensato di farne un lavoro.
- L’idea che la società potesse considerare la scienza una roba “da uomini” mi sfiorò il primo giorno di università: eravamo sessanta studenti, e le ragazze erano solo dieci. Ma, di nuovo, sono stata fortunata.
- Quando divenni una scrittrice pubblicata, tutti erano molto incuriositi dal fatto che fossi un’astrofisica, e che fossi donna. Probabilmente è stato lì che ho capito quando la nostra presenza nella scienza fosse considerata eccezionale.
Da che io ricordi, ho sempre voluto fare la scienziata. Ho anche sempre inventato storie, ma, per qualche ragione, non ho mai pensato di farne un lavoro. Era un hobby, una necessità, un divertimento. Quello che volevo fare da grande era la scienziata.
C’entrava di sicuro il fatto che la scienza in casa mia circolava. Innanzitutto perché ambo i miei genitori avevano una formazione scientifica, e questo ovviamente si rispecchiava nei loro interessi. Tanti libri, perché sono lettori forti, ma anche riviste scientifiche, e trasmissioni divulgative.
Al pomeriggio, guardavo con mamma sul divano Quark, e la sera, una volta a settimana, la versione monster, SuperQuark, in cui non c’erano solo i documentari sugli animali, ma anche tanta fisica, chimica, a un certo punto anche l’esplorazione spaziale e i dinosauri.
Per casa girava Le Scienze, la versione italiana di una rivista di divulgazione americana, Scientific American. Ancora oggi si tratta di un giornale di non facile accesso per chi non abbia già un’infarinatura scientifica, ma allora era ancora più difficile, con articoli lunghissimi e scritti piccolissimi che mi intimorivano e incuriosivano allo stesso tempo.
Lessi dall’inizio alla fine il primo articolo quando avevo dieci anni o giù di lì. Ne ho un ricordo indelebile: ci misi suppergiù una settimana, e lo vissi come una vera e propria impresa. Parlava dell’Archaeopteryx, il primo dinosauro piumato mai ritrovato. Quando vidi una riproduzione di quel fossile nel museo di Storia naturale a Parigi, quasi venti anni dopo, rimasi lì a guardarlo incantata.
Una roba “da uomini”
Sapevo che volevo fare la scienziata, ma non avevo le idee chiarissime su quale disciplina volessi studiare. Da piccola ero orientata verso la biologia, perché gli animali a quell’età attirano sempre, e complice forse la mamma che la amava. Poi mi fissai coi dinosauri, e pensai di fare la paleontologa. Quindi venne il periodo archeologa, in cui probabilmente stavo cercando di mettere assieme la passione per le lettere e quella per la scienza, e infine, verso i quindici anni, mi orientai sull’astrofisica.
Da piccola avevo visto un documentario sulla vita e le opere di Stephen Hawking, una cosa che mi aveva affascinata e inquietata nella stessa misura, e avevo iniziato a pensare che forse le stelle avrebbero potuto interessarmi. Lessi un po’ di libri divulgativi al riguardo, soprattutto di Asimov, e decisi che avrei studiato fisica, per poi diventare un’astrofisica.
Sono stata molto fortunata, nel mio cammino. Nessuno nella mia famiglia mi ha mai detto che sarebbe stato meglio studiassi altro, di più “femminile”. Una volta, una sola, mi dissero di considerare anche ingegneria, che magari aveva qualche sbocco lavorativo in più, ma dicendomi comunque che dovevo fare quel che mi piaceva.
L’idea che la società potesse considerare la scienza una roba “da uomini” mi sfiorò il primo giorno di università: eravamo sessanta studenti, e le ragazze erano solo dieci. Ma, di nuovo, sono stata fortunata.
Mai, nella mia carriera scientifica, ho trovato anche solo una persona che mi abbia trattato in modo diverso perché ero una donna, o mi abbia fatto pesare il mio genere. Ero una fisica, e tanto bastava. Non per tutte è così.
Nonostante la fortuna, però, certe cose le notavo. La scarsità delle professoresse donna, soprattutto ordinarie, quindi ai livelli apicali dell’organigramma universitario. Le poche donne a capo di progetti di ricerca. Ma forse, più ancora, fu la società a farmi uscire dalla mia bolla privilegiata.
Quando divenni una scrittrice pubblicata, tutti erano molto incuriositi dal fatto che fossi un’astrofisica, e che fossi donna. Probabilmente è stato lì che ho capito quando la nostra presenza nella scienza fosse considerata eccezionale, e quanto, presso il grosso pubblico, fosse radicata l’idea che una donna non è portata per fare scienza né per il “pensiero astratto”, come lessi su un articolo di un titolato scienziato.
Scienza e genere
Da allora, in qualche modo anche parlare di scienza e genere è diventato il mio mestiere. Ho proposto progetti al riguardo, parlato della questione ogni volta che ho potuto, partecipato a incontri, non ultimo quello che si tiene oggi a Roma (nella Sala A di Via Asiago) per festeggiare i venti anni di Radio3 Scienza, e che potrà essere seguito su Rai Radio 3 dalle 15 in poi, assieme a illustri scienziate come Elena Cattaneo e Amalia Ercoli-Finzi.
Non è una questione secondaria nella scienza, quella della presenza femminile. Dire alle ragazze che non sono portate per farlo significa perdere per strada incredibili talenti che potrebbero dare un contributo inestimabile alla nostra comprensione dell’Universo. Inoltre, la scienza ha bisogno di punti di vista diversi, di vissuti differenti, deve essere plurale, per essere efficace.
Ad esempio, molti studi di medicina non prendono in considerazione corpi femminili, e questo fa sì che ci siano farmaci che funzionano efficacemente solo sui corpi maschili, e malattie che non vengono diagnosticate nelle donne. Ma si tratta anche di giustizia, di permettere alle persone di seguire i propri sogni e le proprie inclinazioni, qualsiasi esse siano.
Sogno un mondo di donne di scienza che possano percorrere il mio stesso sentiero, sostenute nelle loro decisioni dalla famiglia e dalla società, libere di costruirsi il loro futuro e, al tempo stesso, contribuire a quel grande lavoro collettivo che è la scienza.
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