Per il Guardian è il «nuovo Michelangelo» ma Jacopo Cardillo, classe 1987, non sembra curarsene. «Il mio lavoro è un mezzo di ricerca e di scoperta, innanzitutto introspettivo. Sono abitato da un’infinità di domande. Nella maggior parte dei casi le risposte le trovo attorno a me, ma in misura corrispondente anche dentro di me. Così, quando lavoro mi devo mettere in una condizione d’ascolto. Di me stesso, e del contesto che mi circonda».
La «superstar dell’arte», il «nuovo Michelangelo» e il copyright è del Guardian, il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo nello spazio. Tanti premi in tutto il mondo, pure una medaglia pontificia del Vaticano, novecentosessantamila follower su Instagram. Ma Jago ha un cappellino con la visiera in testa, sorride e sembra proprio non curarsene, mentre cammina tra i vicoli di Napoli e chiacchiera con noi.
Il genio – quest’uomo che all’anagrafe è registrato come Jacopo Cardillo, classe 1987 – lo attribuisce agli artisti del passato, anche nella musica, che ama come i suoi amici Negramaro di cui ha firmato la copertina del nuovo album. La sua scultura di un giovane migrante sdraiato ha viaggiato per due mesi sulla Ocean Vikings di Sos Mediterranee. Per trovare poi un destino di vandali, che hanno impedito la messa all’asta con scopo benefico con base da 1,2 milioni di euro. Da due anni ha inaugurato il suo museo in una chiesa consacrata a Napoli, ma fa base anche a New York per alcuni dei suoi lavori.
Scriveva Cesare Pavese che un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Lei ha ancora Anagni?
Ci sono nato, non sono mai scappato. Resta il posto del cuore e pure la sede della mia società. Mi sposto in relazione ai progetti perché le opere devono essere libere di viaggiare ovunque, e le loro dimensioni o lavorazioni a volte richiedono laboratori speciali. Da quando intorno ai 20 anni ho iniziato a viaggiare però mi è subito apparso chiaro che quel che mi interessa non è tanto il mondo, ma il mio mondo. Detto questo, viaggiando si corre per fortuna il rischio di imparare sempre qualcosa. Ho ben chiaro, però, quali sono le mie radici, e quanto la mia famiglia sia stata fondamentale.
Come?
Mio padre è architetto, mia madre insegnante di Storia dell’arte. E però l’arte non è mai stato un argomento, tra noi. C’era, semplicemente, con evidenza. I miei genitori hanno avuto un’attenzione e una sensibilità forse rare: mi hanno reso certo di poter fare, grazie alla grande libertà che mi hanno sempre lasciato. A volte capita che i genitori diventino l’unica legge possibile, loro hanno osservato da lontano e con amore.
Il marmo. Una scelta? Una sfida? Come è iniziato il suo rapporto con questo materiale che appare così inaccessibile e che lei trasforma?
È il materiale più ambizioso, sì, che si è guadagnato la nobiltà grazie alla tradizione artistica italiana. Un vanto per il nostro paese. Riuscire a lavorarlo è la cosa più complicata e avevo il desiderio di mostrare a me stesso quanto valessi artisticamente.
Al marmo ci torniamo, ma una volta ha fatto un’eccezione, e ha lavorato la ceramica. L’opera si chiama Apparato circolatorio.
È vero. Trenta cuori in ceramica che sembrano tutti uguali ma che hanno invece ciascuno una microdifferenza sostanziale. E così li abbiamo poi fotografati e messi in fila a una velocità di 30 fotogrammi al secondo, mostrando in un video un cuore che si muove.
La tecnologia fa parte del suo lavoro. Online mostra le fasi di realizzazione, la progettazione, lo scalpello.
Con i trenta cuori è stato interessante proporre non una simulazione al computer, ma immagini di realtà, fotogrammi di scultura. Quando guardi quel video vedi davvero come sarebbe se quel cuore in ceramica potesse muoversi. E questo è semplicemente meraviglioso, perché non è una finzione, è la realtà. C’è in quest’opera un’analogia con il mio gesto della scultura, sia perché quanto scolpisco produco un suono che ricorda il battito del cuore, e poi perché nel processo di sgrossatura del marmo si imprime l’accelerazione o la decelerazione del gesto, è come se l’immagine che risulta corrisponda ai battiti che hai dato al materiale.
La sua Pietà è stata scolpita in un blocco di marmo di Carrara di circa 6 tonnellate. Pesante.
Il corpo è fondamentale. Ho imparato soprattutto negli ultimi anni ad avere un atteggiamento sano e rispettoso, perché è una macchina che deve essere performante totalmente. Le energie che ho adesso e che mi servono per fare queste grandi opere non saranno probabilmente le stesse che avrò fra dieci anni.
La fatica si riesce a descrivere?
È sofferenza, un travaglio. Come quello di una donna che porta in grembo il proprio figlio e la mattina ha i conati di vomito. Non ne gioisce, ma è accompagnata magari da un entusiasmo, da una gioia immensa che torna, che partecipa. Ci sono momenti in cui osservo, guardo l’opera ponendomi in atteggiamento non giudicante. E dei momenti che mi ammazzo, letteralmente, con il corpo. Dico davvero: sulla superficie del marmo mi sembra di imprimere lo spartito del battito del mio cuore che si adegua alla velocità che imprimo nel gesto, pompando il sangue necessario a permettermelo. Il gesto artistico racconta qualcosa di profondamente umano, l’umanità impressa nel materiale.
È questo, quello che le interessa?
Il mio lavoro è un mezzo di ricerca e di scoperta, innanzitutto introspettivo. Sono abitato da un’infinità di domande. Nella maggior parte dei casi le risposte le trovo attorno a me, ma in misura corrispondente anche dentro di me. Così, quando lavoro mi devo mettere in una condizione d’ascolto. Di me stesso, e del contesto che mi circonda. E poi devo ricordarmi di essere un uomo del dubbio, nella misura in cui sono anche il vuoto che mi abita. E c’è un “purtroppo” che aggiungerei, ma pure un “per fortuna”: resta lo spazio per il processo creativo.
Un processo che riempie quel vuoto?
La scultura mette nella condizione in primis di togliere il superfluo. Questo aiuta anche sull’ego: dovendo esercitarmi a togliere, a lavorare per fare spazio, è un continuo mettere in dubbio le eventuali certezze, esercitando la curiosità. La scultura costringe a essere curioso, ecco. Un grande vantaggio.
Da un anno ha presentato il suo prossimo progetto: David. Ha previsto circa due anni di lavorazione.
Conto di metterci meno tempo possibile, i progetti sono molti e la mia testa va sempre in direzione del prossimo. Che è per me sempre il più ambizioso. Mi immagino di finire David per l'estate prossima, lo spero.
Ci si sente molto soli, per un anno e mezzo su un blocco di marmo bianchissimo?
Quando sono con le persone vivo nella dimensione del dovermi dedicare all'altro e questo mi distrae. Sì, il mio è un lavoro per forza di cose alienante in certi frangenti, ma è quello che desidero. Per fortuna ho uno staff di uomini e donne molto più bravi di me per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, che lavorano con amore, mi aiutano nella realizzazione dei video, tra le altre cose.
Solo, nella condivisione, quindi?
Quella di condividere online è stata una scelta fatta per una ragione semplice: io avrei desiderato vedere per esempio i grandi maestri della tradizione mentre compongono, musicisti compresi. La fase di creazione è un momento prezioso.
La musica è la seconda arte che preferisce?
La colonna sonora dell’esistenza, per fortuna. Classica e jazz in primis. La classica al mattino, il jazz che è più crepuscolare a giornata terminata.
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