I giovani di oggi sono fluidi, hanno i capelli colorati, mettono i pronomi nella loro biografia sui social, mentre i giovani di dieci anni fa erano fissati con Harry Potter e con i quiz su Buzzfeed. I giovani sono il futuro, e per questo sono migliori dei vecchi, i giovani sono progressisti, i giovani salveranno il mondo. Da quando abbiamo iniziato a dividere l’umanità in generazioni, come scaffali del supermercato, i giovani sono diventati per antonomasia la categoria umana più catalogabile di sempre, sia in negativo che in positivo, come se il dato anagrafico contenesse in sé uno spirito caratteriale condiviso.

Per quanto sia comodo dire che i boomer sono arroganti e gli zoomer sono sensibili, questo esercizio di pigrizia intellettuale ha offuscato il fatto che le generazioni così come le intendiamo altro non sono che categorie di consumo, e che se vogliamo capire cosa pensano i giovani o i vecchi o i quarantenni, prima di tutto dovremmo considerarli per ciò che rappresentano in termini di classe, sesso e provenienza. Un fatto che, con grande sorpresa di tutti, ritorna a galla ogni volta che un evento storico di grande portata rimette in moto la storia, dimostrando che forse non si era mai fermata, con buona pace di Fukuyama.

È la seconda volta che cadiamo dal pero in otto anni. Con Hillary Clinton avevamo la scusa della post-verità, del primo vero decennio trascorso con internet e con la consapevolezza – postuma – di non averci capito nulla. Con Kamala Harris sconfitta da Donald Trump ci aggrappiamo alla post-umanità: l’endorsement di Elon Musk, i razzi su Marte, i satelliti, le Tesla, il free-speech, la trasformazione di Twitter in X, l’intelligenza artificiale usata con disinvoltura per fare propaganda elettorale. Ma come si spiega il fatto che i giovani, quelli che vogliono salvare il pianeta sdraiati sulle autostrade, quelli che guardano Euphoria e ascoltano Billie Eilish sognando un mondo inclusivo, abbiano votato in massa per l’uomo dalla faccia arancione che fa balletti cringe sul palco? Era dal 2008, infatti, che un candidato repubblicano non otteneva così tanti voti nella fascia di elettori tra i 18 e i trent’anni, e questo non è l’unico dato sorprendente delle ultime elezioni americane.

I nuovi elettori 

Il dato sorprendente è che, ancora una volta, essenzializzare una fascia d’età in base a delle caratteristiche ontologiche presunte porta a conclusioni fantasiose. Il 56 per cento degli uomini tra i 18 e i 29 anni ha votato Trump. La maggior parte delle giovani donne ha votato per Kamala Harris, spinte perlopiù dalla questione dell’aborto, ma rispetto al 2020, il candidato repubblicano fresco di attentati ha incrementato i suoi voti in questa fascia dal 33 per cento al 40 per cento. Da qualsiasi parte la si guardi, il fatto che le nuove generazioni si siano spostate sul lato conservatore della politica è la prova che già in quell’ormai lontano 2016 qualcosa nel mondo occidentale era cambiato profondamente, e non solo perché, nonostante qualsiasi campagna pubblicitaria dagli anni Sessanta in poi provi a convincerci che i giovani siano sempre proiettati verso il futuro, la realtà è un’altra.

La campagna elettorale di Donald Trump è un punto d’osservazione privilegiato sulla direzione che i nuovi elettori, quelli nati dopo il 9/11 e cresciuti con internet a portata di mano, hanno preso nel giro degli ultimi dieci anni. Nessun candidato prima di lui – se non solo Bernie Sanders, Cassandra del Partito Democratico statunitense che già ben prima di questi ultimi risultati aveva dato prova di aver intuito da che parte stava andando il mondo – aveva mai sfruttato così tanto l’universo della comunicazione alternativa a quella istituzionale che, per intenderci, non è sinonimo di comunicazione progressista, tutt’altro.

Trump, guidato anche dalla consulenza del figlio diciottenne, Barron, si è fatto il giro di tutti i canali YouTube e Twitch a disposizione, andando a pescare nell’universo della cosiddetta «manosfera», un termine che in Italia probabilmente dice poco ma che costituisce una fetta molto grossa dell’intrattenimento e della cultura giovanile contemporanea: in altre parole, si tratta dell’insieme di maschi che difendono l’occidente dalla cultura woke e dai suoi derivati come il politicamente corretto, pericolosa minaccia per i valori tradizionali che minano la centralità dell’uomo, perlopiù bianco, ma non solo.

Bro culture

È la bro culture, la cultura della «fratellanza» maschile che si unisce per combattere il nuovo che avanza e che li scalza dalle posizioni di predominio (economico, sociale, antropologico), «una subcultura associata al mondo dei college e delle confraternite studentesche, e più in generale a qualsiasi ambiente sociale maschile», come spiega il giornalista Leonardo Bianchi, da anni attento ai movimenti della destra occidentale, in un articolo uscito sulla newsletter Tempolinea all’indomani della vittoria di Trump.

Sono i bro della palestra, i «gym bro», i bro delle criptovalute, strumento economico al centro della rivoluzione della manosfera, e i bro del tech, Elon Musk su tutti, ma anche personaggi come Andrew Tate, ex pugile e icona reazionaria, che ha descritto su Twitter la situazione politica attuale definendola una guerra tra «men versus gays and chicks», uomini contro omosessuali e donne. Sono giovani che temono di aver perso potere e rilevanza nel mondo contemporaneo, post-yuppies con la fissa del mindset e del profitto – quelli che in Italia, seppur in forma meno aggressiva, vengono ben parodiati da Maria Chiara Cicolani e Valeria De Angelis, le Eterobasiche – anche e soprattutto perché hanno perso potere economico. E Trump è andato a trovarli a casa loro.

I media

Il video della sua ospitata al Joe Rogan Experience, il podcast con 18 milioni e mezzo di iscritti su YouTube di cui l’81 per cento maschi, nonché il più seguito degli Stati Uniti, presentato dal comico Joe Rogan, lo stesso che durante il Covid fece una pesante campagna novax, conta quasi cinquanta milioni di visualizzazioni. Mentre Kamala Harris si presentava sul palco del classico Saturday Night Live, porto sicuro della satira progressista, e trovava l’appoggio di tutte le grandi celebrities di Hollywood, ormai percepite come parte di una élite distaccata dalla realtà – mentre non si capisce per quali ragioni l’uomo più ricco del mondo dovrebbe essere a contatto col paese reale –, Trump passava dagli youtuber e podcaster più amati dai giovani americani, come Logan Paul e Theo Von, collezionando centinaia di milioni di views e interviste surreali in cui parla di cocaina, alieni e wrestling.

Del resto, a cosa servono i media tradizionali, gli scontri in diretta televisiva, il fact-checking e l’analisi politica vera e propria quando puoi andare a rastrellare elettori all’interno di cornici mediatiche in cui i moderatori non hanno formazione giornalistica e non esiste alcun tipo di contraddittorio? La televisione non serve più mentre i creator, invece, servono eccome.

I nuovi Ottanta

«Guarderemo agli anni 2016-2030 come una versione scadente degli   » scrive un utente su Twitter commentando il video di una festa pro-Trump in un college, «La storia si ripete sempre due volte – la prima come tragedia, la seconda come farsa», conclude. Non so se stiamo davvero vivendo una versione scadente e caotica degli anni Ottanta, ma di sicuro siamo di fronte a un’occasione di cambiare radicalmente lo sguardo sulle cose che ci circondano, a partire proprio dal modo in cui siamo abituati a incasellare ogni generazione, decennio dopo decennio, partendo dal presupposto che basti una parola per definirle: boomer, millennial, zoomer.

I giovani di oggi non sono né migliori né peggiori dei giovani di ieri, sono solo, come tutti, il riflesso lampante della realtà che li circonda. A seconda di come reagiscono, possono diventare donne motivate a votare nella direzione del progresso, com’è stato in queste ultime elezioni statunitensi, o uomini reazionari convinti che il presente li abbia derubati della loro supremazia millenaria. Sta agli adulti, o almeno ai presunti tali, e a tutte le persone che hanno visto con i loro occhi il processo che ha portato allo stato attuale delle cose, fare i conti con le conseguenze di ciò che hanno o non hanno fatto per cambiarle.

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