È proprio il caso di dirlo: siamo immersi in un mare di plastica.

Sì, perché è stato stimato che tempo vent’anni e nel 2050 nei nostri mari ci sarà più plastica che pesci. La situazione degli oceani è sempre più preoccupante e il dito è puntato contro le attività antropiche identificate come i fattori più significativi del degrado ambientale. Le materie plastiche, grazie alle loro proprietà intrinseche, sono diventate materiali ideali per una varietà di prodotti industriali e di consumo.

Pertanto, dato l’aumento esponenziale nella loro produzione e uso, la quantità di plastica nei mari è destinata a crescere. Molti studi concordano che tra i mari più minacciati c’è il Mediterraneo e pare sia proprio l’Italia ad essere il secondo paese inquinante dopo l’Egitto. Un disastro che mette a rischio la biodiversità marina, oltre 130 specie tra pesci, mammiferi marini, tartarughe e uccelli, ma non solo.

Le microplastiche

La presenza di piccole particelle di plastica nell’ambiente era già nota sin dai primi anni settanta, ma solo recentemente le microplastiche hanno attirato un crescente interesse da parte della comunità scientifica. C’è però da dire che, per quanto le si stia studiando con grande attenzione a livello globale, al momento se ne sa ancora relativamente poco.

Diversi dati su accumulo, concentrazioni e passaggi attraverso la catena trofica risultano talvolta discordanti e il tema è in costante evoluzione. Ma cosa sono precisamente le microplastiche? Come lo stesso nome lascia intendere, sono plastiche di piccole dimensioni. Ma quando si tratta di definirle in modo più preciso, non esiste ancora un consenso chiaro che comprenda tutti i criteri necessari per descriverle. Una delle definizioni più condivise include tra le microplastiche tutti quei materiali inferiori ai 5 mm di grandezza. In relazione alla loro origine sono poi classificate in due categorie. Le microplastiche primarie sono quei granuli di plastica vergine che vengono rilasciati direttamente nell’ambiente sotto forma di piccole particelle.

Dai prodotti per la cura personale (detergenti per mani, scrub viso, cosmetici e gel doccia) alla segnaletica orizzontale, dai tessuti sintetici all’abrasione degli pneumatici fino ai rivestimenti delle navi e al pellet di plastica, in un report del 2017 della IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura) è stato stimato che le microplastiche primarie danno un contributo importante al quantitativo totale di microplastiche presente in mare. A farla da padrone pare siano i polimeri sinettici che con l’usura e il lavaggio rilasciano microfibre che troviamo un po’ ovunque. Uno studio pubblicato su Plos One nel 2020 ha stimato che dal 1950 al 2016 le microfibre prodotte dal lavaggio a mano e dalle lavatrici sono state 5,6 milioni di tonnellate, di cui circa la metà prodotte dopo il 2006.

Al contrario, le microplastiche secondarie sono il risultato della degradazione di plastica più grande esposta alla luce, al calore e alle intemperie. E sembra che siano la forma prevalente nell’ambiente marino, dove si stima che circa 68.500-275mila tonnellate siano emesse annualmente. E al mare, chiaramente, ci si arriva passando, per lo più, per la terraferma. Ciò avviene quando la pioggia dilava queste particelle e le porta nei corsi d’acqua, nei laghi o direttamente in mare. Una seconda via rilevante è quella delle acque reflue, mentre un contributo minore pare sia dato dal vento.

Cibo per pesci e poi

Chiaramente in mare le microplastiche diventano cibo per pesci. E se è vero che “siamo quello che mangiamo”, contestualizzando questo aforisma in ambiente marino, anche i pesci sono quello che mangiano e il sillogismo è presto fatto, o almeno dovrebbe. La biodisponibilità delle microplastiche per i pesci è influenzata da una varietà di circostanze. In primis le microparticelle possono assomigliare alle piccole prede abituali, ingannare quindi la fauna marina ed essere facilmente ingerite. Poi ci sono i pesci filtratori e quelli che mangiano depositi che, a causa del loro comportamento alimentare non selettivo, sono molto vulnerabili all’ingestione di microplastiche.

Revisionando la letteratura scientifica si evince che le microplastiche sono state trovate in specie di pesci commerciali migratori (come il tonno rosso), pesci migratori stagionali (come il branzino) e pesci sedentari (come sogliola e platessa), nonché in pesci del Mediterraneo di grande importanza commerciale come le sardine e le acciughe pesci che, tra l’altro, sono spesso consumati interamente. Ciò che più o meno rassicura è che le microplastiche pare siano presenti prevalentemente nel tratto digestivo e raramente nei tessuti edibili, come i muscoli. Considerando che la maggior parte delle specie ittiche viene eviscerata prima del consumo, secondo i ricercatori l’esposizione diretta dell’uomo alle microplastiche sarebbe trascurabile. E il condizionale è d’obbligo soprattutto nel mare magnum della ricerca: infatti pare che in alcuni pesci essiccati la quantità di microplastiche sia risultata maggiore in quelli eviscerati rispetto agli organi escissi (visceri e branchie).

Salviamo allora uno spaghetto con le cozze o una romantica cena a base di ostriche? Anche qui c’è da essere molto cauti, perché per crostacei e molluschi bivalvi si consuma anche il tratto digestivo. È stato visto infatti che queste specie possono filtrare e trattenere microplastiche di varie dimensioni in quantità che dipendono dalla loro concentrazione e distribuzione nell’ambiente marino.

Mare nostrum?

Il Mediterraneo, anche perché è un bacino semichiuso, è una delle aree del pianeta maggiormente inquinate da microplastiche. E proprio nelle nostre acque uno studio pubblicato su Journal of Sea Research lo scorso aprile ha evidenziato la presenza di microplastiche e vari polimeri nella parte edibile (muscolo) di due specie di larghissimo consumo: il tonno e il pesce spada.

La ricerca, condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise in collaborazione con il Croatian Veterinary Institute di Spalato e l’università Politecnica delle Marche, sottolinea che le microplastiche possono diventare un problema anche per noi in quanto entrano di certo nella catena alimentare, dall’acqua ai pesci fino alle nostre tavole. E sono proprio i pesci di dimensioni maggiori, come appunto il tonno e il pesce spada, che vivendo a lungo accumulano nei loro tessuti una quantità di inquinanti maggiore di quella dei pesci più piccoli.

Ora a dispetto della famosa stima (che poi si è mostrata eccessiva) per cui, secondo uno studio commissionato dal WWF all’Università di Newcastle, noi ingurgiteremo circa una carta di credito in microplastiche (5gr) alla settimana, ancora non se ne sa abbastanza e quindi lungi dal fare terrorismi su un tema così complesso. I pochi dati disponibili sembrano suggerire che le microplastiche possano avere effetti sull’organismo simili ad altre microparticelle insolubili.

Ma è ovvio che affermare che non ci siano ancora dati sufficienti per determinare l’esposizione e la pericolosità non significa che il rischio non ci sia. Cosa fare? Intanto sensibilizzare e, nel dubbio, variare il più possibile l’alimentazione così da minimizzare l’effetto sommatorio derivante dall’eventuale accumulo di una determinata sostanza nociva, per quanto micro che sia!

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