Durante queste feste, tra un panettone e un pisolino, ho avuto occasione di provare uno strumento del demonio che porta il nome di Dyson Air Wrap, un asciugacapelli all’avanguardia che ti fa tutto a parte il 730. Già sapevo che così facendo avrei creato un nuovo bisogno, ho amiche che da anni ne parlano meglio che dei loro fidanzati.

Oltre a sembrare un oggetto progettato per andare nello spazio, ha la particolarità di costare un po’ più di cinquecento euro, un prezzo irrisorio per chi si fa la piega tutte le settimane dal parrucchiere, una cifra immorale per chi come me tende a lasciar asciugare i capelli gratuitamente all’aria (con risultati tremendi, ça va sans dire).

Ed è qui che il Dyson ci conquista: non serve una manualità particolare per usarlo, questa tecnologia costosissima prevede che anche un macaco come me possa ottenere ottimi risultati senza grande fatica, passando dalla chioma di Maga Magò a quella della Sirenetta in pochi minuti.

L’asciugacapelli

Mentre strabiliata guardavo le mie ciocche avvolgersi da sole intorno a questo modellino dell’Apollo 11, e con la mano libera cercavo su Google “sconti Dyson” come la pulciara che in fondo sono, sono stata raggiunta da un aggiornamento sulle condizioni di Cecilia Sala, che in un raro contatto con la sua famiglia, dal carcere iraniano in cui è prigioniera dal 19 dicembre, ha raccontato di dormire in terra in una cella d’isolamento, una coperta sul pavimento e una per ripararsi dal freddo, la luce sempre accesa che cancella qualsiasi differenza tra il giorno e la notte e rende una condizione di per sé drammatica ancora più esasperante.

Guardandomi allo specchio con i miei boccoli nuovi e questa bramosia nata dal nulla in pochi secondi di phon, mi sono sentita un’imbecille. Imbecille due volte: per i desideri stupidi di cui sono in balia e per il senso di colpa peloso che ne deriva, naturale evoluzione di quando le nostre madri terzomondiste ci obbligavano a finire quello che avevamo nel piatto perché in Africa i bambini morivano di fame.

Mentre io, nonostante abbia giocato con molte pigotte dell’Unicef, compro cose e penso a comprare cose e valuto con morbosa attenzione la lucentezza dei miei capelli, una giornalista con cui non ho mai avuto alcunché da spartire diventa simulacro di tutto ciò che non sono e non sarò mai: una persona coraggiosa, profondamente radicata nel mondo in cui vive, appassionata e inarrestabile.

Lo vedo da sola che qualsiasi tentativo di confronto è ingiusto (per lei) e piuttosto patetico (per me), ma a Cecilia Sala ho sempre pensato in questi termini. Ha tre anni meno di me, il che la rende ai miei occhi giovanissima – chissà a che età dovrò arrivare e quanti F24 dovrò pagare ancora per smettere di considerarmi giovane donna – una bambina prodigio della mia generazione, esemplare magnifico e mirabile di un gruppo demografico più che altro noto per altri talenti (vivere in pochi metri quadri, mangiare sano spendendo molto, organizzare matrimoni esagerati, comprare candele di lusso).

Kabul e Kiev

Il suo lavoro invece mi sembrava incomprensibile anche prima che finisse in una cella di isolamento. Ma che voglia hai, mi dicevo tra me e me, chi te lo fa fare. Chi te lo fa fare a venticinque anni di stare a Kabul mentre la città viene presa dai Talebani, e poi a Kyiv mentre i russi la bombardano, in Palestina mentre Gaza viene rasa al suolo.

Me lo chiedo per chiunque faccia questo lavoro, ma per lei un po’ di più, proprio per questa immedesimazione ridicola che scatta nella mia testa quando vedo gente della mia età fare cose notevoli. Io mando ancora un messaggio a mio padre ogni volta che torno a casa tardi (dal ristorante, mica da una zona di guerra), e questa gira per i posti più pericolosi del mondo per capirli e raccontarli a noi che cerchiamo con uguale ostinazione il modo più facile per farci la piega.

Fatico a comprendere il sentimento che porta una persona a vivere così, io non credo di aver mai provato una tale determinazione o una passione simile, neanche per i miei stessi capelli, che pure hanno ricevuto molte più attenzioni del Medio Oriente in questi anni.

È qualcosa che mi sfugge e che più che altro mi riempie di ammirazione, ora più che mai, mentre ogni giorno mi sveglio pensando a questa donna che per aver fatto il suo lavoro nel migliore dei modi è rinchiusa in un posto spaventoso da settimane. A cosa pensa durante questi giorni e queste notti indistinguibili? Piange? Ha paura? Ha fame? Ha bisogno di un asciugacapelli?

Mi impongo di rettificare le mie priorità, nella vita di agi che mi sono scelta senza mai pormi davvero un’alternativa, consapevole che non comprare il Dyson non riporterà Cecilia Sala a casa più velocemente né avrà alcun impatto significativo sull’esistenza di nessuno, se non su quella del mio conto in banca.

Provo a immaginarmi in un carcere iraniano, ma pure in un carcere qualsiasi, e provo pietà per me stessa. Per Sala la compassione invece non arriva, perché mi viene da riservarla agli sconfitti, ai poveretti, agli inadeguati.

Per lei sento solo un rispetto smisurato e l’apprensione di chi a trentadue anni ancora manda i messaggini ai genitori appena varcata la soglia di casa. Sono certa che farebbe volentieri a meno della mia stima e di quella di tutti gli altri per poter dormire nel suo letto, o semplicemente in un letto degno di questo nome, ma non abbiamo molto altro da offrirle. Cosa si regala a una persona che ha già tutto?

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