Scommetto che non vi siete mai fermati a riflettere sull’origine dei vostri sentimenti. Certo, vi sarete chiesti cosa vi fa sentire afflitti, perché una determinata situazione vi imbarazza o la causa di un improvviso momento di euforia.

Ma probabilmente non vi siete mai chiesti da dove vengano l’afflizione, l’imbarazzo e l’euforia in quanto tali, e quasi certamente avete dato per scontato che quei sentimenti siano sempre esistiti ed esisteranno per sempre nella forma in cui li conoscete. Non è così.

Ad esempio, quando dite di essere “nostalgici” avete in mente un sentimento delicato, di dolce malinconia: probabilmente non pensate a una malattia mortale che affliggeva i soldati al fronte, eppure è con quel significato che il termine è stato coniato da un medico svizzero nel XVII secolo.

E quando parlate di “accidia” vi immaginate distesi sul divano persi in uno scrolling infinito sui vostri cellulari, ma è improbabile che vi vengano in mente i diavoli che tormentavano i monaci medievali per i quali questa emozione oggi semidimenticata era un peccato capitale.

La pensavo anch’io così, o meglio non avevo mai riflettuto sul problema, fino a quando mi sono imbattuto nel Centre for the History of Emotions della Queen Mary di Londra, l’università in cui lavoro ormai da parecchi anni, e attraverso di esso in una disciplina accademica di cui fino a quel momento non sapevo nulla. È stata la storia delle emozioni a farmi capire che l’universalismo emotivo non è solo sbagliato, ma può addirittura essere pericoloso.

Ieri e oggi

Elena Carrera, tra i fondatori del Centro, che oggi dirige, mi ha spiegato che la storia delle emozioni si basa su una premessa: «Le emozioni – mi ha detto – sono molto più che un ventaglio di sentimenti di base collegati a specifiche espressioni facciali, come pensano certi psicologi. Si esprimono attraverso il linguaggio, ed è il linguaggio a dar loro significato. Le parole che usiamo per parlare delle emozioni hanno una lunga storia, nel corso della quale questo significato è cambiato talvolta anche radicalmente».

Da più di vent’anni Carrera studia il ruolo giocato dall’immaginazione nella formazione delle emozioni nella prima modernità: gioia e tristezza hanno avuto un ruolo importante nella storia della devozione, e se la rabbia è stata a lungo considerata un fattore di rischio per la salute, veniva anche prescritta come cura per malattie caratterizzate dalla debolezza.

«Ciò che chiamiamo “emozione” è cambiato nel tempo – dice – oggi siamo di fronte a una riscoperta delle componenti cognitive dei processi emotivi già riconosciute da Aristotele o dagli stoici, che parlavano delle emozioni come di “giudizi valutativi”».

Ma le emozioni hanno anche una dimensione sociale. Nel suo ultimo libro, Boredom (Cambridge University Press, 2023), Carrera ripercorre la storia culturale della noia come emozione sociale. «Emozioni come la rabbia, l’odio e il fervore religioso hanno contribuito alla creazione di un senso di comunità, ma generato anche conflitti e divisioni. Una delle cose che proviamo a comprendere qui alla Queen Mary è come le interazioni sociali non siano soltanto definite dalle emozioni, ma possano anche definire le emozioni di coloro che sono coinvolti nella transizione».

Tra i direttori passati del Centro c’è Thomas Dixon, di cui ho recentemente tradotto una breve ma efficace introduzione al tema (Storia delle emozioni. Un’introduzione, EDB 2024). Nel libro, Dixon fissa l’origine della disciplina al 1941, anno in cui lo storico Lucien Febvre ipotizzava per la prima volta una storiografia capace di indagare la «vita affettiva del passato».

È stato però solo negli anni Ottanta che le idee pionieristiche di Febvre hanno dato vita a un vero e proprio campo di studi alternativo e complementare alla storiografia tradizionale. Alcuni libri sono stati tradotti in italiano, come l'importante introduzione di Jan Plamper (Storia delle emozioni, Il Mulino 2018) o lo studio di Julian Evans sull’estasi (Estasi: istruzioni per l’uso, Carbonio 2018). Molti altri aspettano ancora di essere tradotti.

Malinconici e depressi

Le emozioni sono, naturalmente, anche un fattore importante nell’ambito della salute, fisica e mentale. Un esempio di come i significati associati a un sentimento abbiano ripercussioni sul benessere delle persone è quello di un termine oggi abusato, «depressione». Di per sé, il vocabolo è incredibilmente polisemico, e può essere applicato a campi di studio distanti tra loro come la geografia o l’economia. Eppure in ambito emotivo ha assunto un significato prettamente medico, quello attribuitogli dalla psichiatria a partire dalla fine dell’Ottocento.

Oggi sentiamo spesso dire che l’Occidente sta attraversando una «epidemia di depressione». Su cosa sia esattamente questa depressione non c’è un accordo: qualcuno la spiega in termini psichiatrici, altri usano categorie psicologiche, per altri ancora è una malattia sociale. In tutti questi casi si tratta di un disagio che deve essere curato.

Prima di venire reinterpretata in chiave psichiatrica, però, la depressione è stata per secoli qualcosa di molto diverso: la melanconia che per gli antichi greci come per i filosofi ermetici rinascimentali era prodotta dalla bile nera. La connotazione del termine “melanconia” era molto più ampia di quella del termine “depressione”, un fattore che permetteva al melanconico di leggere il proprio male in chiave decisamente meno deterministica.

Il punto non è quello di rivalutare la teoria degli umori o di scagliarsi contro la moderna psichiatria: piuttosto, è quello di comprendere che fino a non molto tempo fa «essere depresso» significava qualcosa di molto diverso da ciò che significa oggi, e dunque potrà significare qualcosa di molto diverso in futuro. Conoscere il passato di un’idea, insomma, può rivelarsi la chiave per una libertà a venire.

Liberare le emozioni

Questo esempio ci aiuta a comprendere un altro aspetto su cui la storia delle emozioni può giocare un ruolo importante. Oggi viviamo una sorta di apparente schizofrenia emotiva: da un lato siamo immersi in un contesto mediatico-culturale iperemotivo, che usa i sentimenti, talvolta cinicamente, per catturare la nostra attenzione (un discorso che vale da Masterchef alla rabbia politica generata su TikTok). Dall’altro, però, la moderna psichiatria riduce le emozioni alla chimica del cervello, trascurandone la ricca dimensione culturale e limitando in maniera drastica il numero di sentimenti disponibili.

La schizofrenia è solo apparente: entrambe queste prospettive fanno il gioco del capitalismo, e ci ritroviamo a comprare commedie romantiche, proposte elettorali e psicofarmaci sullo stesso grande mercato. A pagarne il prezzo è il nostro benessere mentale. In fondo le emozioni sono la migliore guida che abbiamo per orientarci nel mondo, e perdere la capacità di navigarne le complessità può avere effetti catastrofici. Le emozioni si sono sviluppate per metterci in guardia dal pericolo, per unirci gli uni agli altri in comunità, per elaborare l’impensabile della morte.

Per questo dovremmo resistere al riduzionismo e al determinismo emotivo contemporanei, all’idea che ogni forma di felicità possa essere ridotta a un’emoji sorridente.

Mostrandoci tutti i modi in cui i sentimenti sono evoluti nel tempo, la storia delle emozioni può aiutarci a fare esattamente questo. Senza immaginare emozioni nuove non possiamo nemmeno pensare a un mondo nuovo, perché a ben guardare non c’è mondo che non nasca da un’emozione.

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