Da un po’ di anni, non saprei dire esattamente quanti, forse da quando è nato il Pd, c’è un tormentone che si ripete con una variabile sempre diversa: «La sinistra riparta da…». La sinistra riparta da Fedez, quando Fedez le manda a dire ai leghisti, la sinistra riparta da Richard Gere quando si mette a tu per tu con Matteo Salvini, la sinistra riparta da Zerocalcare, perché è Zerocalcare, la sinistra riparta da Diodato, Ghali, Dargen D’Amico perché a Sanremo sono i sovversivi, da Gualtieri sul carro del Pride, da Mbappé in conferenza stampa.

C’è persino chi ha azzardato un «la sinistra riparta da Berlusconi», quando prima che morisse, all’interno della coalizione di destra sembrava addirittura il più democratico e dotato di buonsenso del triumvriato. La sinistra è orfana di simboli e al contempo ne trova ovunque, pure dove non c’è traccia di sinistra, o dove la traccia è solo il frutto di un caso, il sorpasso su una carreggiata che va in tutt’altra direzione.

Il prima

«D’Alema, di’ una cosa di sinistra», implorava il Moretti di Aprile quasi trent’anni fa, e la preghiera del regista rimbomba nella nostra testa come una condanna da allora. In un momento storico in cui la destra estrema è al governo, con tanto di inchieste preoccupanti ma affatto sorprendenti sul rapporto tra la sezione giovanile del partito di Giorgia Meloni e il neofascismo, basta davvero poco per diventare un simbolo di resistenza.

Basta così poco, che persino un’ovvietà come il dichiararsi antifascisti diventa un gesto rivoluzionario. Quando poi la dichiarazione deve passare dal filtro di TeleMeloni, c’è il rischio che una giornalista e presentatrice come Serena Bortone, che di certo non è nota per il bolscevismo dei suoi contenuti televisivi, diventi una partigiana involontaria della libertà d’espressione in Rai, senza sventolare bandiere rosse né assaltare il Palazzo d’Inverno.

E dunque, eccoci al punto inevitabile in cui «la sinistra riparta da Serena Bortone». Ma facciamo qualche passo indietro. Dopo diversi anni da conduttrice di Agorà, nel 2020 Serena Bortone lascia l’approfondimento politico per cimentarsi nel pomeridiano di Rai1. Fatta di necessità virtù in tempi di Covid, Oggi è un altro giorno è un programma che cresce sia come ascolti che come affezione del pubblico in modo graduale e positivo.

Non passa troppo tempo, infatti, prima che il format diventi anche un discreto generatore di situazioni cult, quei momenti televisivi in cui si esce dal palinsesto e si atterra su internet, nella terra della viralità. Dall’affaire Memo Remigi allo Xanax di Louis Garrel, Oggi è un altro giorno segna il passaggio di Bortone a un universo pop nel quale naviga con disinvoltura, attitudine che conferma anche nel nuovo collocamento, il sabato sera di Rai 3 con Chesarà…, dopo il ritorno della veterana del pomeriggio di Rai1 Caterina Balivo. Fin qui tutto bene, come direbbero ne L’Odio di Kassovitz.

L’insurrezione

Il primo cenno rivoluzionario lo ha dato quando, ad una Annamaria Bernardini De Pace che minimizzava i fatti di Acca Larenzia, ha risposto di essere fieramente antifascista.

«Io sono anti-niente», ha ribattuto l’avvocato, usando una logica in voga di recente che mette l’antifascismo nel calderone dei vari anti-, anti-comunismo, anti-totalitarismo, peccato non ci sia mai traccia di anti-benaltrismo in questo dibattito disarmante per la sua superficialità.

Poi, i fatti del giorno della Liberazione, il monologo di Antonio Scurati che è stato annullato, il lungo seguito di questa vicenda surreale, tra contro-attacchi istituzionali giocati su facili populismi da bar e catene di solidarietà allo scrittore. Da quella situazione, Bortone ne esce come vincitrice morale: lei, che della sua devozione al servizio pubblico non ha mai fatto mistero, si mette in prima linea contro le direttive Rai, leggendo il discorso che Scurati avrebbe dovuto fare e non ha fatto.

Un gesto che, come era prevedibile, in questo periodo di comunicati stampa di Usigrai che parlano di «controllo dei vertici sull’informazione che si fa ogni giorno più asfissiante», diventa una buona occasione per dare una lezione di obbedienza dall’alto.

Ora che Chesarà… ha concluso la sua stagione, con un altro exploit di Bortone sul tema caldo del momento – «Nessuno di noi parlerebbe di fascismo se evitassero di inneggiare alla Decima Mas, fare i francobolli che commemorano i fascisti, picchiare un deputato in aula», ha detto – e con la questione ancora aperta della lettera di contestazione Rai firmata da Roberto Sergio, il quale ha subito precisato che non si tratta di un provvedimento, ma di una richiesta di chiarimento, il futuro televisivo della presentatrice è piuttosto incerto, per non dire preoccupante.

Lo stesso Sergio, del resto, ha anche dichiarato di recente che «In nessuna azienda sarebbe consentito fare un post contro l’azienda per cui si lavora», riferendosi sempre alla patata bollente del 25 aprile, confermando la sensazione che il clima di viale Mazzini non sia dei più rilassati al momento.

Il dopo

Il Bortone-gate, infatti, più che per la vicenda in sé, ossia quella di una conduttrice moderata e devota al servizio pubblico, formata nella palestra di Guglielmi, che si ritrova nei panni della sovversiva, stupisce per la conferma di una strategia politica che punta molto sul soft power dell’unico vero agglomerante generalista e trasversale rimasto in Italia, la cara vecchia Mamma Rai.

Un altro tassello di TeleMeloni che, al netto del negazionismo interno alla maggioranza, avanza senza esitare, tra il fuggi fuggi di volti storici e lo schieramento di volti amici. Che la Rai sia un campo di battaglia tra partiti non è una novità, che lo diventi con prepotenza anche verso chi ha sempre fatto dignitosamente il proprio lavoro al suo interno, smantellando ciò che televisivamente funziona, è un problema.

C’è anche un altro lato da cui guardare questa vicenda che non si è ancora conclusa ma che presenta già diversi punti preoccupanti per la leggerezza con cui si affronta il tema in questione, o come si dice adesso la «normalizzazione» di discorsi e simboli che inneggiano al fascismo, oltre che la libertà d’espressione e il pluralismo. Non è compito di Serena Bortone fare da whistleblower del servizio pubblico, per quanto la sua insubordinazione sia lodevole, in un universo televisivo in cui a prendersi certi rischi sono rimasti in pochi.

A fare opposizione, anche culturale, generalista e, soprattutto, popolare, dovrebbe essere la sinistra italiana, che da anni non aveva un’occasione così importante di rinascita in termini di contrapposizione a fatti a dir poco lampanti. Sarebbe il caso di dire, almeno stavolta: la sinistra riparta dalla sinistra.

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