C’è stato un tempo in cui faticavo a stare dietro a tutte le serie che uscivano ogni settimana e che semplicemente non potevo non vedere. Era l’epoca d’oro della televisione, erano tutti d’accordo nel definirla così, anche a Hollywood, dove professionisti privi di idee da novanta minuti improvvisamente cominciavano a migrare verso la terribile tv e le narrazioni da cinquanta minuti per dieci. Tutti volevano fare le serie – e tutti le fanno ancora adesso – ma mentre il cinema mi sembra tutto sommato ancora in buona salute, la serialità mi sembra che abbia raggiunto uno standard talmente alto da non interessare più a nessuno (o almeno non a me).

Standard è, dopotutto, sinonimo di sicurezza, ma anche di noia. Non so quante volte in questi ultimi anni mi è capitato di guardare qualcosa a puntate, dedicandovi un minimo di cinque ore della mia vita, per poi concludere che come quella riunione poteva essere una mail, quella serie poteva essere un film (Cuarón mi senti? C’era davvero bisogno di sette puntate di Disclaimer? E soprattutto: non avevate una parrucca migliore per Sacha Baron Cohen?).

Ogni volta che inizio qualcosa su una delle 25 piattaforme di streaming che pago ogni mese sento la motivazione abbandonare il mio corpo, l’interesse scemare, il tempo libero diminuire drammaticamente. Ci sono sempre meno novità che ho voglia di scoprire, alle cene tra amici non parliamo più di quello che stiamo bingiando, perché nessuno bingia più niente. E quindi mi chiedo: le serie sono finite o sono io ad essere esaurita?

Riguardare

Credo che sia un misto delle due cose. Da una parte, come tutti gli anziani, trovo grande conforto nella ripetizione e a vivere nel passato. Pertanto eccomi qui, a riguardare più che a guardare, a godermi per la seconda volta sette stagioni di Mad Men che avevo già amato anni fa, ma non mi ricordavo così meravigliose. È la serie perfetta per un rewatch: non succedendo niente di niente mai, sono costantemente sorpresa. In più sono tutti vestiti bene, che credo sia lo spirito con cui mia nonna guardava Il paradiso delle signore.

Riguardo 30 Rock per il buonumore e per non perdere il senso dell’umorismo, che a tratti mi sembra latitare da quando ho un essere umano che mi cresce dentro e dormo già diverse ore in meno di quelle che dormivo un tempo, ma per fortuna Tina Fey fa ridere anche quando la deprivazione di sonno ti rende scema.

Riguardo Sex & the City nella speranza di crescere un figlio omosessuale, Gilmore Girls per insegnargli l’inglese in tempi rapidi, Breaking Bad perché possa avere un interesse nelle materie scientifiche, a differenza dei suoi genitori umanisti e pezzenti (se avete consigli di visione sulla preziosa arte dell’idraulica sono tutta orecchie). Godo della scrittura impeccabile, della qualità ottenuta spendendo probabilmente un decimo di quello che si spende oggi per fare la televisione, mi crogiolo nel comfort delle vecchie e sane abitudini. E questo per quanto riguarda il mio esaurimento.

La sindrome di Lost

Dall’altra parte, dicevamo, c’è lo standard. Le grandi produzioni, i grandi registi, i grandi attori. Solo che nessuno sembra più avere niente da dire, nemmeno quelli che ce l’hanno. Prendiamo Severance, per esempio, la serie di Ben Stiller su Apple TV di cui sta andando in onda la seconda stagione come i vecchi telefilm (una puntata a settimana) e su cui mi sono buttata con entusiasmo dopo aver amato molto la prima tre anni fa. È uno di quei prodotti di cui sopra: qualità a pacchi, messaggio sull’alienazione del mondo del lavoro contemporaneo, critica sociale ma con misteri misteriosi e trama avvincente, John Turturro. Insomma, bravi tutti.

Solo che questo seguito sembra soffrire della pericolosissima sindrome di Lost: è tutto talmente un mistero misterioso che non si capisce più un cazzo di quello che sta succedendo, e il sospetto è che anche chi l’ha scritta non sapesse bene cosa stava facendo. Così ogni settimana cerco di decifrare indizi che potrebbero non esistere, immaginando risoluzioni che potrebbero non arrivare, mentre una nuvoletta con un punto di domanda aleggia sopra la mia testa, segno che il mio stupido cervello gravidico sta fumando per la fatica.

È la condanna delle cose belle che vengono rinnovate anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Anche The White Lotus temo stia andando nella stessa direzione, seppur con il vantaggio di essere una serie antologica che cambia ambientazione e personaggi ogni stagione. È appena iniziata la terza su Sky e la formula consolidata – gente ricca e più o meno insopportabile popola un resort di lusso in una meta esotica dove a un certo punto morirà qualcuno – è sempre vincente e realizzata ad arte, ma rischia di venirmi a noia, nonostante la scrittura eccellente e la presenza bonus di Parker Posey, che vorrei vedere sempre e ovunque.

Sono problemi del primissimo mondo ed è sicuramente meglio essere viziati da un eccesso di qualità che doversi affidare alla programmazione delle fiction Rai, ma spero che le idee non siano finite e che l’intrattenimento possa continuare a intrattenermi in futuro. Altrimenti vorrà dire che è arrivato il momento di riguardare I Soprano.

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