- La sua ultima apparizione in pubblico risaliva alla fine di giugno del 2006, quando a Navarra, in Spagna, partecipò al “Foro spiritual Estrella”: si trattava di un incontro interconfessionale ed era lì con il proprio vero nome, Yves Guillou, nelle vesti di studioso di religioni.
- Operazioni sporche, sporchissime, visto che è citato in innumerevoli documenti giudiziari relativi all’aspra stagione della strategia della tensione: soprattutto la strage di piazza Fontana, ma non solo.
- I giorni di gloria – si fa per dire – di Yves Guérin-Sérac sono legati all’Aginter Press, sedicente agenzia di stanza a Lisbona, nel Portogallo di Salazar, dove si rifugiò a metà anni Sessanta sotto il braccio della Pide, i servizi segreti della dittatura.
La sua ultima apparizione in pubblico risaliva alla fine di giugno del 2006, quando a Navarra, in Spagna, partecipò al “Foro spiritual Estrella”: si trattava di un incontro interconfessionale ed era lì con il proprio vero nome, Yves Guillou, nelle vesti di studioso di religioni. Ma il profilo di cattolico tradizionalista era solo una parte della complessa figura di Yves Guérin-Sérac, il nome più noto con il quale negli anni ha operato. Operazioni sporche, sporchissime, visto che è citato in innumerevoli documenti giudiziari relativi all’aspra stagione della strategia della tensione: soprattutto la strage di piazza Fontana, ma non solo.
Il suo nome tornò a risuonare una dozzina di anni fa in Corte d’assise a Brescia, durante il terzo processo sulla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974: dalla Spagna, allora ultimo domicilio noto di Guillou/Guérin-Sérac, una comunicazione della polizia dava però notizia che se ne erano perse le tracce.
Non si ebbe quindi dalla sua voce una replica a quanto aveva rivelato Maurizio Tramonte, poi condannato con sentenza definitiva all’ergastolo assieme a Carlo Maria Maggi (responsabile di Ordine Nuovo per il Triveneto), secondo il quale appunto Maggi, alla vigilia della strage, tramite Delfo Zorzi contattò Guérin-Sérac, che inviò ai neofascisti veneti due propri uomini per preparare l’ordigno. Ma anche a scorrere l’ultima sentenza sulla strage di Bologna (le motivazioni dell’ergastolo a Gilberto Cavallini dei Nar depositate lo scorso anno, in attesa di quelle del processo a Paolo Bellini, pure condannato pochi mesi fa) il nome di Guérin-Sérac compare più volte.
Chi era Sérac
Si pensava che fosse morto da tempo, vista l’età: francese, nato il 2 dicembre 1926 a Ploubezre in Bretagna, fino a pochi mesi fa era invece ancora vivo. Yves Guillou alias Guérin-Sérac è infatti passato a miglior vita (è davvero il caso di dirlo) lo scorso 9 marzo novantacinquenne in un paesino della Provenza alle porte di Tolone, Le Revest-les-Eaux, dove da cinque anni era ospite di una casa di riposo.
A rivelarlo, lo scorso 20 agosto in un lungo reportage pubblicato da “Alias”, supplemento culturale de ilmanifesto, è stato il giornalista Andrea Sceresini, già autore una decina di anni fa di un notevole libro inchiesta (Internazionale nera) in cui la sua ossessione per Guérin-Sérac era già ampiamente dispiegata. Il che spiega perché sia stato proprio lui ad accorgersi di una notizia che, in realtà, già era apparsa in rete tre giorni dopo la dipartita dell’ex militare francese: un brevissimo annuncio funebre datato 12 marzo in commossa memoria di chi, prima di votarsi all’eversione, aveva combattuto in Corea, Indocina e Algeria, per poi aggregarsi all’Oas coltivando il mito dei “soldati perduti” e dell’anticomunismo a oltranza.
I giorni di gloria – si fa per dire – di Yves Guérin-Sérac sono legati all’Aginter Press (o Presse, stando al logo che compariva sui suoi stessi documenti), sedicente agenzia di stanza a Lisbona, nel Portogallo di Salazar, dove si rifugiò a metà anni Sessanta sotto il braccio della Pide, i servizi segreti della dittatura.
L’Aginter Press
In Italia se ne seppe ufficialmente soltanto nel 1973: solo allora, infatti, finì in mano al sostituto procuratore Emilio Alessandrini che indagava sulla strage di Piazza Fontana (e che nel 1979 verrà ucciso da Prima Linea) un documento che risaliva addirittura a quattro anni prima. Era una velina del Sid che, nell’immediatezza dell’eccidio (era il 16 dicembre del 1969, quattro giorni dopo l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura), lo indicava come regista dell’operazione, citando pure in qualche modo l’Aginter Press (“Agenzia Ager Interpress”). Ma lo si definiva cittadino tedesco e soprattutto anarchico.
In più, venivano citati Robert Leroy, suo braccio destro (fascistissimo pure lui), Stefano Delle Chiaie e addirittura Mario Merlino, quest’ultimo aggettivato come “filo-cinese”: un mix insomma – come sempre in questi casi – di elementi verosimili ma allo stesso tempo depistanti, che ebbero infatti l’effetto di direzionare le primissime indagini per la strage appunto contro gli anarchici.
Non era affatto un caso. Caposaldo dell’Aginter Press erano infatti operazioni di destabilizzazione caratterizzate dal medesimo principio: far ricadere la colpa sul fronte opposto (ovviamente di sinistra). Era scritto nero su bianco in uno dei tanti documenti che il 22 maggio del 1974, alla caduta del regime, vennero trovati dai militari democratici portoghesi nella sede dell’Aginter Press, abbandonata da Guérin-Sérac in fuga, probabilmente verso il Sudamerica di altri regimi.
E così si scoprì che non si trattava di una semplice agenzia di stampa. Tali documenti, come sintetizza proprio la sentenza Cavallini, riportavano un numero impressionante di riferimenti a pratiche di terrorismo e di guerra non ortodossa, per la quali l’Aginter Press disponeva di centri di addestramento, nei cui corsi venivano insegnate tecniche di sorveglianza, di pedinamento, di contatto fra agenti, di interrogatorio (come condurlo e come subirlo), di alibi, di falsa confessione in caso di arresto e, soprattutto, tecniche di sovversione e di sabotaggio in ogni situazione politico-geografica.
«Particolare attenzione – si legge nella sentenza – veniva dedicata alle missioni speciali, finalizzate sia all’infiltrazione e alla guerra psicologica, fino all’eliminazione di obiettivi materiali o umani, missioni descritte in modo particolareggiato nella loro scansione, dalla fase preparatoria e dall’arrivo del primo esecutore sul posto, qualificato da un’attività di copertura e da una vita passata fittizia e studiata solo per i terzi che con lui venissero in contatto, fino al debriefing, con la cancellazione di ogni traccia umana e materiale della missione che era avvenuta».
Si diceva di un documento in particolare. Era intitolato “La nostra azione politica” e vi si leggeva così: «La nostra convinzione è che la prima fase dell’attività politica dovrebbe essere quella di creare le condizioni favorevoli affinché si instauri il caos in tutte le strutture del regime. Secondo noi la prima mossa da fare è quella di distruggere la struttura dello stato democratico sotto la copertura delle attività comuniste e filosovietiche. Del resto, abbiamo persone che si sono infiltrate in questi gruppi. Due forme di terrorismo possono provocare una tale situazione: il terrorismo alla cieca (commettere indiscriminatamente dei massacri che provocano un gran numero di vittime) e il terrorismo selettivo (eliminare persone scelte). Questa distruzione dello stato deve essere effettuata con la copertura di “attività comuniste”. Dopo di che, bisogna intervenire nel cuore dell’esercito, del potere giuridico e della chiesa, per influenzare l’opinione popolare, suggerire una soluzione, e dimostrare in modo chiaro la debolezza dell’attuale apparato giuridico. L’opinione popolare deve essere polarizzata in modo tale da poter essere presentata come l’unico strumento capace di salvare la nazione».
La forza del silenzio
A distanza di mezzo secolo, è ancora il miglior compendio operativo di quella che in Italia è stata chiamata “strategia delle tensione”. A squadernare il ruolo e l’importanza dell’Aginter Press fu un clamoroso scoop dell’Europeo, i cui inviati entrarono in quegli uffici all’indomani della sua scoperta, potendo consultare a lungo tutto il materiale (e fotografandolo), tra lo sconcerto dei magistrati milanesi.
A partire dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, che sulle pagine del settimanale trovò quello che definì «l’anello mancante» della propria inchiesta. Se anche fosse stato rintracciato da qualche magistrato italiano, Yves Guillou non avrebbe detto nulla: perché la consegna del silenzio, per figure come la sua, è essenziale per restare in vita a lungo, come effettivamente è avvenuto. Silenzio per scomparire, per non farsi più trovare. E infatti per contare sue fotografie le dita di una sola mano sono anche troppe. Peraltro, da diversi anni l’anziano eversore conviveva con l’Alzheimer.
Sceresini racconta che nessun familiare, in quella casa di riposo, lo andava più a trovare. E chissà se ne aveva più. Amici però sì, probabilmente “custodi” di quell’omino il cui oscuro passato nessuno lì poteva immaginare. Il suo culto almeno in rete è infatti stato sempre coltivato, tanto che una dozzina anni fa, su un forum di collezionisti di “militaria” venne annunciato il ritrovamento delle sue decorazioni e dei suoi diplomi: ed ecco quindi spuntare nel web grappoli di fotografie di medaglie, stellette, pergamene, a testimoniare l’alba della parabola del Guillou militare, definito con ammirazione “dog of war” in un florilegio di commenti estasiati.
Come poi questa competenza sia stata messa al servizio di disegni concretizzatisi in colpi di stato e stragi, è vicenda che fatica a finire definitivamente in mano agli storici: per la sua complessità, certo, ma anche perché ancora materia di inchiesta giudiziarie.
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