Simone Weil è una filosofa che ha tutto per sedurci. Morta a 34 anni nel 1943, ha aggirato gli scogli delle ideologie dominanti per approdare a una sintesi tra socialismo e pensiero libertario, impegno politico e afflato spirituale. Alla fine lo spirituale ha prevalso sul politico, ma nessuno può dire come sarebbe ancora evoluta se non fosse stata stroncata prematuramente dalla tubercolosi.

Del suo approdo testimoniano gli ultimi scritti raccolti da Marco Dotti in Attenzione e preghiera, da poco uscito per Meltemi, tra i quali una breve “Autobiografia spirituale”. In effetti per capire il suo pensiero è utile ripercorrere la sua intera vita.

Nell’introduzione al libro, Chiara Giaccardi evoca la “radicalità” della filosofa. Eppure negli anni della Guerra fredda i comunisti la guardavano con sospetto, perché la sua filosofia tanto seducente assomiglia a un ripiego, forse a un riflusso.

Scrive Giaccardi: «Non c’è un progetto, un disegno, un eroismo sacrificale, ma uno svuotamento di sé per lasciar posto alla verità». Non è un caso se il suo più grande promotore, nel Dopoguerra, fu il più seducente degli anticomunisti, Albert Camus. Negli anni del sussulto anti-sovietico di una parte degli intellettuali francesi, l’autore dello Straniero pubblica i grandi libri di Simone Weil e cura un’antologia dei suoi scritti giovanili, dal titolo evocativo Oppression et liberté. Un’altra Simone, de Beauvoir, denuncerà il recupero del suo pensiero da parte della destra.

Gli anni rivoluzionari 

Non tutti sanno però che Weil fu in giovane età una fervente militante sindacalista rivoluzionaria, incuriosita dalle posizioni di Lev Trotsky – che conobbe e con cui litigò nel suo appartamento parigino – prima di coglierne l’opportunismo. Nel frammento autobiografico raccolto in Attenzione e preghiera, Weil racconta di come la carità cristiana  – che per lei coincide con la giustizia – l’aveva condotta al lavoro in fabbrica e di come quell’esperienza l’aveva cambiata. «Là ho ricevuto, per sempre, il marchio della schiavitù, come il marchio che i Romani mettevano sulla fronte dei loro schiavi più disprezzati. Da allora mi sono sempre considerata una schiava».

Gli schiavi, aveva capito presto la filosofa, c’erano anche in Unione Sovietica. Espatriata in Germania nel 1932-1933, Weil recepisce i dibattiti che accompagnano il crollo dei partiti operai di fronte all’ascesa dei nazisti e si avvicina alle posizioni dell’estrema sinistra secondo cui l’Urss sarebbe tutt’altro che uno Stato operaio. Nelle riflessioni che affida a testate radicali come La Révolution prolétarienne, la Critique Sociale e L’école émancipée, la filosofa denuncia un partito comunista al servizio di una burocrazia statale straniera, che difende i propri interessi e non certo quelli dei lavoratori. Ma poiché l’alternativa al comunismo sono i riformisti socialdemocratici o – peggio – i nazionalsocialisti, nessun partito rappresenta veramente la classe operaia. Che fare allora?

Pessimismo profondo 

L’inclinazione socialista di Weil viene gradualmente corrosa da un profondo pessimismo, il che può sembrare ragionevole negli anni dell’ascesa di Hitler e delle purghe di Stalin. In un celebre articolo la filosofa si chiede: «Andiamo verso la rivoluzione proletaria?». E risponde: no. I bolscevichi hanno instaurato una burocrazia permanente e irresponsabile, reclutata per cooptazione, che attraverso la concentrazione di tutte le funzioni economiche e politiche gode di un potere inedito nella storia. Semplice “deformazione” di uno stato operaio, “anomalia”, “malattia” o “transizione”, come afferma Trotsky?

No, l’Urss è un sistema che obbedisce alle proprie leggi, «né capitalista né operaio». Di conseguenza, il ruolo dei partiti comunisti non è altro che di soffocare la lotta rivoluzionaria del proletariato. Assieme agli anarchici e ai dissidenti del trotskismo, la filosofia denuncia una convergenza tra i regimi staliniano, fascista e liberale adottando come chiave di lettura il tema della burocratizzazione del mondo. Queste idee, allora minoritarie, godranno di più ampia fama nel Dopoguerra, quando si parlerà di antitotalitarismo.

Come sosterranno poi tanti altri autori ben più celebrati, i tre regimi sono forme diverse della stessa dittatura economica esercitata dai tecnici, una nuova forma di oppressione esercitata non in nome della proprietà privata ma della funzione. Questa funzione, chiamata amministrativa o burocratica, è quella che consiste nel coordinare il lavoro degli altri.

Di conseguenza, l’errore di Marx è stato secondo Weil quello di non interrogarsi sulla nuova classe oppressiva dei tecnici della direzione che avrebbe potuto nascere da questa funzione. Ma questa funzione è permanente e indipendente dalle forme legali di proprietà, dal momento che impone – attraverso la macchina – un modo di produzione basato sulla subordinazione di coloro che eseguono a coloro che coordinano. Weil non sarà né la prima né l’ultima, tra le file dei delusi del comunismo, a finire per dare ragione ai teorici conservatori dell’elitismo.

Dogmatismo totalitario 

Che cos’è dunque il totalitarismo per Weil? Nell’autobiografia spirituale riconduce tutto all’«uso di queste due paroline: anathema sit». Forgiate in seno alla chiesa, ai tempi dell’Inquisizione, esse si ritrovano secondo la filosofa nell’ideologia di tutti i regimi totalitari, dall’impero romano fino al suo tempo. Il dogmatismo insomma, il dominio di chi sa su chi non sa.

Marx aveva ragione, secondo lei, a denunciare come peggior difetto del capitalismo la degradante divisione tra lavoro manuale e intellettuale. Si trattava però di una contraddizione intrinseca all’industrializzazione e alla razionalizzazione. In effetti nella fabbrica razionalizzata, foss’anche sovietica, l’esecutore viene privato di ogni iniziativa, intelligenza, conoscenza, metodo. La conseguenza tragica è quella di distruggere tutte le condizioni del benessere materiale e morale dell’individuo, tutte le condizioni dello sviluppo intellettuale e culturale – «una questione di vita e di morte».

Secondo la filosofa, l’Urss non è sulla strada dell’emancipazione ma semplicemente uno strumento nelle mani di un’altra classe. In nessun paese, scrive, le masse lavoratrici sono più miserabili, più oppresse, più avvilite che in Russia: «Lenin, dopo aver disegnato, nei suoi scritti, l’abbozzo di uno stato senza esercito, né polizia, né burocrazia distinte dalla popolazione, ha cominciato a costruire la macchina burocratica, militare e poliziesca più pesante che abbia mai schiacciato un povero popolo infelice».

Lei osserva una tendenza trasversale «verso l’asservimento a una forma totalitaria dello stato». Il problema centrale da risolvere è quindi di trovare un modo per formare un’organizzazione che non generi burocrazia. Ed è questo che la porta infine al rigetto del marxismo e alla promozione di un ritorno al socialismo pre-scientifico, il che le varrà l’accusa di essere reazionaria e piccolo borghese: «Non credo che il movimento operaio possa tornare ad essere nuovamente qualcosa di vivo nel nostro paese finché non cercherà, non dico dottrine, ma una fonte d’ispirazione in ciò che Marx e i marxisti hanno combattuto e disprezzato follemente: in Proudhon, negli aggregati operai del 1848, nella tradizione sindacale, nello spirito anarchico».

Una strada che verrà ripercorsa tre decenni più tardi da molti sessantottini, sedotti dall’idea di autogestione prima di tornare nei ranghi seguendo la “terza via”. Il famoso riflusso.

Fuga dalla politica

Riflusso che Weil aveva, come già suggerito, anticipato. Meno di dieci anni dopo, delusa da tutte le opzioni disponibili sullo scacchiere politico, Weil ha oramai abbandonato le sue aspirazioni rivoluzionarie per dedicarsi alla preghiera.

La filosofa pensa già alla sua morte, istante che costituisce «la norma e lo scopo della vita», nel quale «per una frazione infinitesimale di tempo, la pura, nuda, certa, eterna verità entra nell’anima». Commentando il Padre Nostro in un testo ora raccolto in Attenzione e preghiera scrive: «Dobbiamo desiderare che tutto ciò che è accaduto sia accaduto, e nient’altro».

La parabola di Simone Weil, vista in questa luce, anticipa di qualche decennio quella di un’altra generazione di intellettuali, passati dalle barricate alla rassegnazione per assenza di alternative praticabili.

Ma in questa fuga dalla politica c’è ancora politica. Perché «l’azione su di sé, l’azione sugli altri, ha a che fare con la trasformazione dei significati». O per dirla altrimenti: «La guerra, la politica, l’eloquenza, l’arte, l’insegnamento, ogni azione sugli altri consiste essenzialmente nel mutare ciò che gli uomini leggono». Evidentemente non è bastato.


Attenzione e preghiera (Meltemi 2024) è una raccolta di testi di Simone Weil

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