Il barone Pierre de Coubertin, nel 1896, considerava antiestetica la partecipazione delle donne alle Olimpiadi e quindi le escluse dalle gare; una ragazza greca corse comunque la maratona il giorno dopo, fu cronometrata ma trovò lo stadio chiuso.

Nel 1900, a Parigi, 22 donne furono ammesse in cinque discipline considerate non disdicevoli (tennis, vela, croquet, equitazione e golf); da allora il processo di emancipazione femminile ha proceduto sicuro ma lento – solo nel 1984 alle ragazze fu consentito di correre la maratona, nel 2000 entrò nel programma la lotta femminile e nel 2012 il pugilato, ultima delle discipline “classiche”. (A proposito, alle Olimpiadi dell’antichità le donne non potevano assistere nemmeno come spettatrici).

A Parigi 2024, finalmente, hanno partecipato tante donne quanti uomini, con matematica acribia (10500 atleti, 5250 per ciascuno dei due sessi); tutte e tutti potevano concorrere in tutte le discipline, con due sole eccezioni: la lotta greco-romana è ancora vietata alle femmine, la ginnastica ritmica esclude i maschi.

Il risarcimento

Ma si è fatto anche qualcosa di più, con intento risarcitorio: si sono volute onorare le donne, a partire dalle icone di donne importanti che apparivano durante la cerimonia d’apertura. Nel villaggio olimpico attrezzato per la stampa le strade sono intitolate esclusivamente a donne; in atletica si è invertito l’ordine tradizionale, per cui l’ultima gara in pista è stata la 4x400 femminile invece di quella maschile e l’ultima competizione in assoluto non è stata la maratona maschile ma quella femminile (la cui premiazione, con liturgia inedita, è diventata un elemento della cerimonia di chiusura nel prestigioso Stade de France).

Direi, senza avere prove certe ma solo come impressione, che in tivù si sono viste più atlete che atleti; ma questa può essere una delle tante astuzie del patriarcato, dato che probabilmente a guardare lo sport sono (ancora) più i maschi che le femmine, e questi (in grande maggioranza) preferiscono vedere belle ragazze piuttosto che marcantoni nerboruti.

I corpi

Resta un problema di fondo: le donne hanno una struttura fisica in media meno forte di quella degli uomini e una muscolatura meno possente. Insomma, ad alti livelli, corrono (o nuotano, o pedalano) più lentamente, lanciano più vicino, saltano meno in alto (o in lungo), sollevano pesi più leggeri, i loro pugni fanno meno male. Per questo nelle gare femminili ci sono sempre state alcune “facilitazioni” o precauzioni: barriere più basse nelle corse a ostacoli, pesi più leggeri nei lanci, sette discipline invece di dieci nelle prove multiple, maggiori protezioni alla testa nella boxe. Nella ginnastica le ragazze affrontano attrezzi, come la trave, che richiedono agilità ed equilibrio mentre sono esentate da un attrezzo "di forza” come gli anelli. I 50 chilometri di marcia, che fino a Tokyo 2021 esistevano solo per i maschi, sono stati ridotti a 35 per poter diventare bisex. Per ovviare a questa differenza biologica, e garantire confronti paritari, si sono moltiplicate le gare “miste” in cui un uomo e una donna (o più uomini e più donne) gareggiano insieme: nelle staffette di corsa e nuoto, nei tuffi, nel triathlon, nello skeet di coppia, nelle squadre miste di judo. Si pensano complicate strategie, se conviene partire con le donne per fare poi l’acuto con i maschi alla fine, o se una ragazza particolarmente brava può essere messa nella frazione dove ci sono più maschi per avere poi un uomo che nuota con una maggioranza di donne, o se la forza mentale della compagna può tranquillizzare il compagno sparando per prima, o per ultima, eccetera.

EPA

Caster Semenya

I guai cominciano con le prove individuali, dove il corpo dell’atleta è solo con la propria biologia. Che succede, se una donna per qualche motivo possiede una forza muscolare che somiglia a quella di un uomo? Può gareggiare con le altre ragazze, la competizione non rischia di diventare iniqua? Il caso si presentò, per esempio, con la mezzofondista sudafricana Caster Semenya: il suo iperandrogenismo le faceva produrre naturalmente dosi anomale di testosterone e la dotava di una straordinaria bellezza ambigua, vederla correre gli 800 e vincere era una gioia per gli occhi. La Iaaf la sottopose a un’analisi del Dna (tenuta segreta per ragioni di privacy) e la costrinse ad assumere farmaci che abbassassero i suoi valori ormonali; la sua corsa divenne più faticosa, le sue vittorie si fecero rare, alla fine si ritirò. Il dilemma si è ripresentato, clamorosamente, a Parigi con la pugile algerina Imane Khelif, aggravato dal fatto che nella boxe hai un contatto diretto con l’avversario, lo scontro può essere molto duro. Anche per lei si è parlato di “un cariotipo maschile e genitali femminili”, i suoi livelli di testosterone erano stati considerati eccessivi dalla International Boxing Association (che nel 2023 l’aveva squalificata dal Mondiale dilettanti) ma compatibili dal Comitato Olimpico. Le idee in proposito, tra conteggio di cromosomi e ispezioni impossibili dei genitali per il rispetto che si deve all’intimità dell’atleta, sono ancora molto confuse e gli organismi sportivi si contraddicono. La canea mediatica non aiuta ed è anche un po’ oscena.

EPA

La transizione di genere

Ancora più complesso è il caso delle persone che stanno compiendo o hanno compiuto un percorso di transizione: la nuotatrice americana Lia Thomas, nuotatore di medio livello nel 2019, ha vinto nel 2022 i campionati nazionali universitari sulle 500 yard stile libero gareggiando con le ragazze. Qui l’assenza di equità appare più chiara, ma deve fare i conti con le accuse di discriminazione da parte delle atlete trans, e l’annaspare dei giudici sconta l’imbarazzo: si è cominciato con l’esigere un’operazione chirurgica, poi si è passati alla quota di testosterone, ma ovviamente quel che importa è il testosterone che l’atleta aveva quando si sono formati scheletro e muscoli, non quello che produce ora; la soluzione adottata adesso sembra ragionevole – gare vietate alle trans che abbiano “attraversato una pubertà maschile”. Non ci si pensa mai, ma mentre ci si scanna di regole sul cromosoma XY e il testosterone iperprodotto, nessuna regola è prevista (né richiesta) per atleti che abbiano una iperproduzione di estrogeni o che abbiano compiuto una transizione F to M, dal femminile al maschile. Che vantaggio potrebbe avere, nel gareggiare coi maschi, qualcuno che abbia caratteristiche femminili? Forse in discipline dove contino la grazia e l’eleganza più della forza: è significativo che a Parigi 2024 sia stato ammesso il nuoto sincronizzato (o artistico) maschile, ma che nessuna nazione abbia presentato concorrenti. (Bill May, il campione statunitense di nuoto artistico che si è lamentato per la mancata iscrizione, a vederlo esibirsi ricalca ancora pesantemente gli esercizi e le movenze delle ragazze). Insomma, in un universo sempre meno binario forse anche alle Olimpiadi la distinzione tra gare maschili e femminili sta andando un po’ stretta.

Le Destre, sentendo di aver sostanzialmente perso la partita della famiglia sedicente “naturale”, si arroccano sui contrafforti della biologia mainstream: un uomo è un uomo e una donna è una donna, non vogliamo entrare nel letto di nessuno e ciascuno è libero di amare chi vuole, ma se vedo un maschio so ancora riconoscerlo, per Dio. Le tautologie sembrano tanto più sicure quanto più sono antiche e ribaltarle pare insensato (o frutto di oscuri complotti). Peccato che la biologia non proceda per tagli netti ma secondo una scala continua; le distinzioni sono un risultato culturale e le mutazioni accelerano. Il fenotipo di un atleta dipende dal suo genoma ma anche dal contesto comportamentale: i successi di Ian Thorpe dipendevano dal suo 51 di piede o dalla tradizione natatoria australiana? L’ibridazione è in corso, le fibre muscolari giamaicane possono far correre veloci atleti di nazionalità norvegese, dunque dai campionati nazionali si dovrebbero escludere i non indigeni? Quando i cervelli potranno essere collegati con reti neurali computerizzate, i tiratori al piattello potranno giovarsi dell’innovazione o in quanto cyborg dovranno presentarsi alle paralimpiadi? Corpi “disegnati” per eccellere in questo o quello sport saranno una sfida più insidiosa del doping. Forse è l’idea stessa di competizione che dovrà essere ripensata, coi suoi miti del record e della performance.

© Riproduzione riservata