Stefania Nobile, figlia della televenditrice più famosa, è ai domiciliari come il suo ex compagno Davide Lacerenza. L’accusa: procuravano prostitute e droga ai clienti. Quando si parla di loro è difficile uscire dal piano dell’assurdo. Nel sontuoso racconto della madre, lei ha sempre interpretato il ruolo della spalla. Ma ha qualcosa di tragico
«L’ultimo romanzo che hai letto?» chiede Giuseppe Cruciani, «I promessi sposi», risponde Davide Lacerenza, seduto al tavolo de La Zanzara, il programma radiofonico che propaga giornalmente la sua egemonia sottoculturale, per usare un’espressione di Massimiliano Panarari, con una rotazione di personaggi pescati dalla profondità degli abissi umani. «Quando lo ha letto?», incalzano i conduttori, «Quarant’anni fa, a scuola. Nel mezzo del cammin di nostra vita…», procede l’imprenditore, mentre illustra con candore al pubblico le sue abitudini drogherecce.
La Milano da bere – e da inalare, diciamo così – è la protagonista dell’ennesimo scandalo che avvolge non solo Lacerenza, il proprietario del locale La Gintoneria, detto anche «Lo sciabolatore di champagne», ostinato viveur della notte meneghina, umili origini del Giambellino e grandi aspettative che guardano alla Madonnina, ma anche l’instancabile Stefania Nobile, che aggiunge così un altro tassello all’epopea wannamarchiana.
Milano e l’altra Milano
Milano, I promessi sposi, La Gintoneria, gli sciabolatori, le accuse di autoriciclaggio, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione, detenzione, spaccio di sostanze stupefacenti, l’arresto all’alba del 4 marzo, giusto poche settimane dopo l’ospitata alla Zanzara di Lacerenza, ex fidanzato, socio e partner in crime, come si direbbe ironicamente ma in questo caso neanche troppo, di Nobile.
Mentre la città delle api operose ambrosiane esce da una delle sue infinite Fashion Week, evento cardine della personalità cittadina, dove prestigio, produttività e coolness si mescolano in un turbinio di modelle alte troppi centimetri in più rispetto a noi comuni mortali che girano per le linee della metro, l’altra Milano, quella sporca, brutta e cattiva, quella notturna e sgraziata, pacchiana e glitterata, quella che sta a due passi dalla stazione Centrale, in via Napo Torriani per essere precisi, si metteva a lavoro per regalarci un nuovo spunto narrativo legato a un universo di racconto che contro ogni mezzo, anche quelli più risoluti, stenta a esaurirsi.
«Wanna Marchi la potete fermare solo se la uccidete. Chiaro?» urlava l’Ursula piadinara delle televendite, e forse, a giudicare dall’autonomia di questa storia che non smette di autoprodursi, anche quando il tubo catodico si è estinto e i materassi si comprano da Ikea e non più da Mastrota, ci aveva visto lungo.
Marchetta
Piccola Marchi o Marchetta, così la chiamano, la figlia della scioglitrice di pance, dispensatrice di numeri magici, cacciatrice di malocchi. Con Davide Lacerenza, il Renzo dei superalcolici serviti come se fossero complicati intrugli da alchimisti, autoproclamatosi «il King di Milano», ha una storia lunga e travagliata che comincia ben vent’anni fa, con l’apertura di un altro locale con non poche controversie al seguito, La Malmaison.
I due condividono senso di rivalsa e spregiudicatezza che convertono in una auto-rappresentazione fatta di esagerazione: dal banco della frutta alla Ferrari, dalla provincia al centro del mondo, la forza centripeta della capitale morale attira chi dai bordi cerca la gloria. Lacerenza, nello specifico, è l’ospite perfetto di format come Gurulandia, luoghi in cui si nutre il culto del denaro come unico mezzo di espressione e affermazione del sé, o il dispensatore di clip utili alle varie pagine Instagram e TikTok che rastrellano le manifestazioni più eccentriche dell’umanità contemporanea, moderni Blob che si nutrono di chi sa mettere in mostra tutta la propria stravaganza grottesca in favore di smartphone.
Stappare bottiglie con le carte di credito, nitrire come segno di virilità di fronte a donne avvenenti, dette appunto cavalle, esporre con orgoglio e rivendicazione la propria joie de vivre, chiamiamola così, in un turbinio di nottate insonni con aiuti di polveri magiche che innevano la pista della discesa negli inferi localari; a Roma si direbbe cafonal, a Milano potrebbe essere zarronal.
Lacerenza, di cui Nobile è agente, così come lo fu, per un breve periodo, anche di Fabrizio Corona, personaggio assai compatibile con l’universo dell’uncanny milanese, oltre a rivendicare che nella sua Gintoneria «No beer, spritz, amari e minchiate simili. Only fine wine, gin e champagne», chiaro manifesto di intenti, dice anche che Stefania è la persona più importante della sua vita: c’è del romanticismo ostinato e paradossale in questa storia di criminalità, i Bonnie e Clyde della M2.
Del resto, quando si parla delle Marchi in tutte le loro manifestazioni, televisive, processuali o imprenditoriali che siano, è difficile uscire dal piano dell’assurdo.
Il relativismo militante
Stefania, che ha sempre interpretato il ruolo della spalla nel grande racconto epico della madre, ha qualcosa di tragico, un elemento nefasto sotto gli spessi strati di melanina accumulati in anni di lampade. «La cocaina si deve fare di Stefania Nobile, non io di lei», dice a Francesca Fagnani, mettendo in scena un’intervista che descrivere faticosa, per non dire estenuante, è fin troppo generoso.
Marchetta, così come la madre, rivendica ogni millimetro del suo passato, un passato in cui, come sappiamo bene dalla frase diventata aforisma tratta dal documentario Netflix uscito un paio di anni fa, Wanna, «i coglioni vanno inculati». Marchetta non solo rivendica, ma rimane immobile sulle sue posizioni di relativismo militante, un atteggiamento che potremmo chiamare benaltrismo, ma che forse è solo un sapiente intruglio di paraculaggine e ostinazione, elementi retorici che, a differenza dello scioglipancia, alle volte funzionano.
Perché mai, in una scala di valori, lei e sua madre, colpevoli solo di aver detto la verità, quella più sincera e non quella più poetica, per para-citare Annalisa, dovrebbero essere più criminali di quelle «zingare che girano per la metropolitana con le guardie del corpo», chiede Stefania, mentre la giornalista che ha sempre una sillaba pronta come risposta lapidaria affanna dietro alla Belva fuori controllo, come quei gatti che dal veterinario annusano la siringa già da decine di metri prima dell’ambulatorio.
Unghie, denti e cattiveria, nel libro di Dotto e Piccinini, Il mucchio selvaggio, la madre viene descritta così: «Una valchiria che cavalca l’irresistibile fascino dell’orrore, di una cattiveria incontenibile che sfonda il video».
Bucare il video
Sfondare il video, un concetto fondamentale per comprendere un fenomeno come quello delle Marchi, oggi ormai assorbito dalla cultura pop in forma di citazionismo e ironia, «Guardatevi allo specchio… fate schifo!», strillavano e continuano a strillare sulle varie pagine internettiane che fanno da archivio digitale alle loro malefatte, una su tutte Prossimi Congiunti, imbattibili cultori della materia.
A detta del perfido padre palermitano però, Stefania quel video non lo sfonda, e rimane sempre all’ombra di una madre molto ingombrante, ma al contempo inseparabile. Racconta sempre da Fagnani, in quei rari momenti in cui si concede di mollare la presa della sua autodifesa senza però abbassare il tono della voce, che in carcere le due donne non hanno mai versato lacrime una di fronte all’alta; al massimo, dice, piangeva nella doccia.
E di reclusioni, Wanna e Stefania, al di là dei fatti recenti, non si può dire che non siano esperte, così come di grandi battaglie mediatiche – e poi giudiziarie –, come fu quella con Antonio Ricci, che prima le rese le icone pop che sono ancora oggi, portando la madre nel suo Lupo Solitario, e poi si scagliò contro, diventando acerrimo nemico: nessun eroe, o presunto tale, sopravvive senza un cattivo, e così pure a Milano Gotham, tra il tendone di Striscia a Cologno e le televendite per dare i numeri, entrambe le parti si sono nutrite a vicenda.
Perché, dunque, dopo tutti questi anni e dopo tutti questi processi, l’ennesima caduta della donna con lo sguardo severo, le labbra sottili e l’abbronzatura di cuoio, stavolta in compagnia del King e non della Queen urlatrice con una corona di alghe e fanghi, suscita ancora interesse? Perché l’epopea delle donne che per decenni hanno strillato in faccia alle casalinghe che erano grassi pachidermi inutili sembra non volersi chiudere mai? Forse perché, in fondo, sappiamo che il mondo Wanna e Stefania, quello delle televisioni private e del mucchio selvaggio di cui ci raccontano Dotto e Piccinini non è mai finito, si è solo trasformato.
Dagli spot body-positive di Estetista Cinica durante Sanremo, spazio pubblicitario più ambito dell’anno che dimostra la vastità del suo impero basato sulla cellulite – non sulle truffe, chiaro, ma il macro-tema è lo stesso, così come l’emozione durante le televendite digitali per le Fagiane –, alla grandissima rivoluzione silenziosa dell’Ozempic, il farmaco miracoloso che ha trasformato tutte le star di Hollywood da attiviste per l’auto-accettazione a modelle di Victoria’s Secret con pance piatte forgiate da ben altri principi attivi di quelli delle tisane snellenti, il presente è una televendita ingentilita di Wanna Marchi e Stefania Nobile, ed è probabile che lo sarà ancora per molto.
Il presente è una influencer che truffa i suoi follower con pubblicità fuorvianti, è un contenuto sponsorizzato che promette risultati impossibili, uno sguardo in camera, una call to action, un link su cui cliccare per avere la soluzione, un test a pagamento per vedere quale colore si abbina di più alla tua personalità, nonché l’ennesima conferma che sì, stando ai principi discutibili, deprecabili e assolutamente non condivisibili del Wanna-pensiero: «I coglioni vanno inculati».
E i coglioni, chiaramente, siamo tutti noi, a turno, almeno una volta nella vita. Di questo principio brutalmente schietto, alla fine, si nutre l’infinita epopea delle donne più spaventosamente insensibili e determinate della televisione sommersa italiana, e pure stavolta, nel nuovo capitolo che si è aggiunto, non si può dire che manchi. Anche se la fregata, per dirla in modo un po’ meno triviale, stavolta è lei.
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