Hannah Arendt pubblicò La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario nel 1958, nella seconda edizione americana di Le origini del totalitarismo. Il saggio appare adesso in Italia, a cura di Simona Forti e Gabriele Parrino (Raffaello Cortina Editore, 2024). I dodici giorni della breve rivoluzione, secondo Arendt, rivestirono un valore storico maggiore rispetto ai dodici anni (1945-1957) trascorsi da quando l’Armata Rossa aveva “liberato” l’Ungheria dal nazismo. I paesi “liberati” erano stati preparati al totalitarismo, «dalle tattiche del Fronte popolare e del suo fasullo sistema parlamentare (…) per giungere, in vero stile russo, ai processi-farsa» contro le figure ostili a Mosca.

Dopo la morte di Stalin, nel marzo del 1953, Krusciov, Malenkov, e Berija gestirono il potere collegialmente. L’eliminazione di Berija e l’allontanamento di Malenkov, ad opera di Krusciov, secondo Arendt, furono coerenti con la tecnica del colpo di stato, adottata da Stalin per epurare le fazioni di destra e di sinistra.

Nel febbraio del 1956, alla conclusione del XX Congresso del Pcus, Krusciov diede avvio, con il celebre rapporto segreto, al processo di destalinizzazione, provocando, nei paesi-satellite, manifestazioni che mettevano in discussione il controllo del partito sulla società civile. A Budapest si erano verificate delle proteste già dopo la morte di Stalin, e la nomina dello stalinista Rakosi volle rappresentare un ritorno all’ordine. Il moderato Nagy, scelto poi per succedere a Rakosi, apparve fin troppo “liberale” e nel 1955 fu chiamato al governo Hegedus, più fedele al Cremlino.

La libertà di pensiero

La rivoluzione ungherese ebbe inizio il 23 ottobre del 1956. Consapevoli di vivere «in mezzo alla menzogna», scrive Arendt, gli ungheresi chiedevano qualcosa che «persino l’Intellighenzia russa si rifiutò di sognare: la libertà di pensiero». Avvenne tutto in modo improvviso, quando, a Budapest, una protesta studentesca si trasformò in una grande manifestazione, che espresse la sua rabbia contro l’imperialismo sovietico abbattendo la monumentale statua di Stalin. Fu allora richiamato Nagy, ma la sua solidarietà con gli insorti non poteva essere tollerata da Mosca.

Krusciov, inizialmente favorevole a una soluzione diplomatica della crisi, decise quindi di intervenire. Su tale scelta incise sicuramente un messaggio di Palmiro Togliatti, per il quale era necessario reprimere la rivolta “controrivoluzionaria” che minacciava l’unità del mondo comunista. Quando, il 4 novembre, i sovietici invasero il paese, i comunisti italiani si schierarono fedelmente a fianco dell’Urss, anche se non mancò il dissenso interno, come avvenne nel caso di Di Vittorio. Altri, come Giolitti o Reale, abbandonarono il partito.

Nagy, che si era rifugiato presso l’ambasciata jugoslava, fu prelevato dai sovietici il 22 novembre e successivamente impiccato nel 1958, nonostante Kadar, il nuovo presidente rimasto poi al potere fino al 1988, gli avesse garantito un salvacondotto. Come Stalin, scrive Arendt, Krusciov dimostrava di non piegarsi alla legalità e alla moralità e, come Stalin, manteneva i campi di concentramento.

A Budapest si formarono dei consigli rivoluzionari, una riproposizione dei soviet, che Lenin aveva ridotto al silenzio, scrive Arendt, perché «i socialisti rivoluzionari avevano tra le loro file molti uomini di cui il popolo si fidava di più rispetto ai bolscevichi». In Ungheria si stavano affermando, a suo avviso, modelli di democrazia diretta assimilabili anche agli organi di autoamministrazione diffusi nelle democrazie, dalla Svizzera alla Scandinavia, dall’Inghilterra agli Stati Uniti. Tutto ciò era decisamente estraneo al totalitarismo sovietico.

Colpo di stato

François Fejtó, in Ungheria 1945-1957, scrisse che i comunisti si erano abituati a confondere rivoluzione e colpo di stato, immaginando che la rivoluzione potesse confezionarsi negli uffici del Cremlino. Questa idea li spinse a reprimere con durezza un movimento orientato non solo a ridimensionare il ruolo del Pcus, ma addirittura a “rovesciare” il suo dominio. Come ha sostenuto Tony Judt in Postwar, il Cremlino non voleva assolutamente rinunciare al ruolo guida del partito nei paesi-satellite, temendo che ciò potesse divenire «un cuneo democratico», fatale per tutto il blocco socialista.

Arendt ricorda l’ultimo messaggio di Radio Kossuth: «Oggi tocca a noi, domani sarà un altro paese, perché l’imperialismo di Mosca non conosce limiti e sta solo cercando di prendere tempo». Mentre l’imperialismo europeo era fondato su basi economiche, l’imperialismo totalitario russo, sostiene Arendt, mirava a una conquista che non doveva apparire come un atto di forza, ma come il risultato di una rivoluzione interna che si sarebbe conclusa con il trionfo dei partiti comunisti.

L’esperienza dei consigli si pose quindi come alternativa radicale al monolitismo sovietico e alle logiche partitiche. L’influenza delle formazioni organizzate sui processi rivoluzionari fu spesso marginale, secondo Arendt.

Cita, in proposito, un passo in cui Tocqueville, in L’antico regime e la rivoluzione, scrive che i cospiratori di professione, nel 1848, si limitavano a recitare, per le strade di Parigi, lo spirito del’89, non essendo capaci di riviverlo. I movimenti furono in molti casi prevalenti sui partiti, prosegue Arendt, come accadde nel 1871 a Parigi, nel 1805 e nel 1917 in Russia, nel 1918-1919, in Germania.

Rivoluzione spontanea 

In questo quadro interpretativo si staglia la figura eterodossa di Rosa Luxemburg. In una lettera del 9 settembre 1958 al curatore americano del suo saggio, Arendt scrive che avrebbe voluto dedicare lo scritto «alla memoria di Rosa Luxemburg». Aggiungeva però che non si poteva rendere, in una dedica, la complessità del suo pensiero, perché «Luxemburg non fu né socialista né comunista, ma soltanto una persona che difese la giustizia, la libertà e la rivoluzione in quanto uniche possibilità per una nuova forma di società e di stato».

I consigli, come scrive Arendt nel saggio Sulla rivoluzione, del 1963, erano organismi aperti, che riunivano cittadini di diverse provenienze politiche. Entravano dunque in conflitto con i partiti tradizionali, ma anche con le «assemblee costituenti», i cui programmi, sebbene apparissero rivoluzionari, erano in realtà «formule preconfezionate» e «non richiedevano azione, ma esecuzione».

Nei consigli non vigeva la separazione tra gli esperti dei partiti, che “sapevano”, e la massa, destinata ad eseguire, «perché, ogni volta che il sapere e il fare si separano, lo spazio della libertà va perduto». Nel corso di una rivoluzione si sviluppano forme di autogoverno popolare che, prosegue Arendt, possono richiamare le “piccole repubbliche”, considerate da Jefferson elementi essenziali per un grande ordinamento repubblicano che voglia difendersi dalle tentazioni oligarchiche.

L’autogoverno rappresenta invece, per le concezioni politiche autocratiche, un ostacolo da rimuovere con ogni mezzo. Lenin ammirò, nella rivoluzione russa del 1905, la “creatività rivoluzionaria del popolo” e, nel 1917, affermò che il potere apparteneva ai soviet, ma, dopo le agitazioni che culminarono nella rivolta di Kronstadt, fece di tutto per delegittimarli. Ecco perché, scrive Arendt in Sulla rivoluzione, «il nome Unione Sovietica, per la Russia post-rivoluzionaria, è stato fin da allora una menzogna, ma questa menzogna conteneva fin da allora un importante riconoscimento dell’immensa popolarità, non del partito bolscevico, ma dei soviet che il partito aveva ridotto all’impotenza».

L’Urss represse a Budapest, nel 1956, un movimento spontaneo che, accusato di essere controrivoluzionario, mirava in realtà a liberare il socialismo dalla sua armatura totalitaria. Se è mai esistito qualcosa come la “rivoluzione spontanea” di Rosa Luxemburg, scrive Arendt, fu proprio la rivoluzione ungherese, che prese corpo al di fuori di ogni necessità storica e di ogni apparato ideologico.


La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario (Raffaello Cortina Editore 2024, pp. 168, euro 14) è un saggio di Hannah Arendt

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