Cecilia Scerbanenco racconta Traditori di tutti, il secondo romanzo che nel 1966 suo padre Giorgio ha dedicato all’investigatore milanese, appena ripubblicato dalla Nave di Teseo.
Traditori di tutti, il secondo episodio delle avventure di Duca Lamberti, esce sempre nel 1966, molto atteso, dopo il grande successo – e scandalo – di Venere privata. Successo e scandalo che anche questo romanzo ripeterà, facendo vincere al suo autore il Grand prix de littérature policière, prestigioso e storico premio francese con una sezione per i libri stranieri.
Il libro
Essenzialmente, Traditori di tutti è la storia dell’amore di una ragazza americana per il padre morto in guerra in Italia. Scerbanenco, se fosse stato ancora in Rizzoli, avrebbe potuto scriverlo così, raccontando le drammatiche vicende di una giovane donna. Ma lo Scerbanenco noirista fa inciampare il suo investigatore Duca Lamberti nelle conseguenze impreviste della di lei vendetta.
«Quando venne la televisione, il primo a metterla fu il mio fidanzato, il macellaio, tutta Ca’ Tarino voleva andare a casa sua a vederla, ma lui sceglieva, invitava i miei genitori, così andavo anch’io e così ci siamo fidanzati, al buio lui mi metteva una mano sulle ginocchia, poi saliva su, e appena ha potuto mi ha chiesto se ero vergine, io con quella mano sulle gambe e mia madre vicina m’infastidivo, e gli ho risposto di sì, per prenderlo in giro: ero stata proprio ad aspettare lui».
Questo famoso brano racchiude, magistralmente, tutte le caratteristiche della scrittura di Scerbanenco: le peculiarità stilistiche e la facilità nell’analisi sociale.
Analisi sociale è un termine freddo, tecnico quasi. Come figlia, potrei dire che la grande sensibilità emotiva e psicologica di mio padre per i suoi simili, trent’anni di lettere con le sue lettrici, l’aver vissuto una vita piena e drammatica, incontrando persone di ogni strato sociale, gli permettono, attraverso le vicende e le illusioni di una ragazza, di raccontarci e di svelarci la complessa Milano degli anni ’60 (ma precedente al 1968, quando si verificherà un cambiamento radicale).
Giovanna Marelli è una giovane di buona ma povera famiglia che si lascia ubriacare dal primo, timido arrivo del modello consumista: la televisione! L’Italia non è più soltanto contadina, e Giovanna pensa di potere avere accesso a quel mondo di ricchezze con facilità grazie alla seduzione, in cui si ritiene maestra. Invece, come molte prima e dopo di lei, finisce per cacciarsi in un mucchio di guai. Perché, racconta dolente Scerbanenco, si crede furba e si innamora soltanto di pessimi soggetti.
E il macellaio? Il macellaio parte da una botteguccia di famiglia a Ca’ Tarino, frazione letteraria di Buccinasco e, ancora giovane, si costruisce un piccolo impero, con negozi anche a Milano, persino in centro. Come fa a guadagnare così tanto? La risposta che Scerbanenco dà nel 1966 è perfetta ancora oggi.
Milano anni ‘60
La Milano di quegli anni, la città della mia infanzia, era una città mercantile e aristocratica allo stesso tempo, ricca di cultura ottocentesca, con un che di popolare e provinciale che presto sparirà. Dal dopoguerra in poi, Milano beneficerà particolarmente della rapida crescita economica, fino a trasformarsi, negli anni ’70, in una metropoli, in una città di spirito europeo.
Scerbanenco, con quella ipersensibilità e attenzione per il mondo che gli è propria, avverte queste sottocorrenti già nei primi anni ’60, e le fa diventare le correnti sotterranee dei suoi romanzi, e di questo in particolare. I criminali che si fanno la guerra lungo le eleganti, antiche strade di Milano, magari persino costruite da Leonardo, appartengono alle stesse bande che vi troviamo ancora oggi.
Ogni tanto, mio padre viene accostato ai cantori della “ligera”, la tradizionale e bonaria malavita milanese, dedita a una criminalità di sopravvivenza, che nasce dalla miseria. Tuttavia, io non l’ho mai trovata nelle sue pagine. Nelle storie di Scerbanenco, il crimine appartiene già a un’altra Milano, è sempre cattivo, nasce da abietti o futili motivi, (articolo 61 del Codice penale, dove futile sta per meschino), oppure da indifferenza e superficialità, o un miscuglio di tutto questo. Sullo sfondo, intanto, cominciano a comparire i tentacoli del crimine organizzato, spesso internazionale.
Da dove arrivano questi legami internazionali nella tranquilla e laboriosa Milano? Sono il retaggio della guerra.
Mi ha sempre colpito la profondità dello sguardo di mio padre sulla realtà, la sua capacità di cogliere le minime sfumature dell’animo umano (lui si definiva schizofrenico, affetto da personalità multiple e contraddittorie), ma anche le più impercettibili, profonde correnti sociali. La guerra permane nella società italiana in molte forme: le persone stesse – spesso, giudici e questori, funzionari vari fascisti fin dalla prima ora non vengono rimossi; le armi – che non sempre furono restituite – e la capacità di usarle; nuove “abilità” criminali – il contrabbando, per esempio – e nuovi legami con le malavite straniere, arrivate al seguito dei diversi eserciti invasori. Questi ultimi si rafforzeranno con la nascita della Cortina di ferro tra Est e Ovest, mescolandosi con tensioni politiche. Anche il terrorismo, che arriverà di lì a poco, ha alcune radici nel secondo conflitto mondiale.
Queste conseguenze di lunga durata della guerra compaiono in molti romanzi e racconti di Scerbanenco, magari in una frase, un accenno, un personaggio secondario. In Traditori di tutti non ne manca nessuna, ci sono anche le conseguenze psicologiche: un dolore sordo e inestinguibile, oppure un cinismo crudele altrettanto imbattibile, come ci racconta il titolo. Avrebbe dovuto essere Americano e fesso, ma lo stesso scrittore si disse sicuro che l’editore non lo avrebbe gradito, e così ne scelse un altro, altrettanto efficace – ma meno divertente – che coglie in tre parole il cuore della sua storia: la serena assenza di ogni scrupolo morale.
La guerra per mio padre aveva molti aspetti comuni con la criminalità: in entrambi i casi si tratta di situazioni estreme, dove ognuno di noi rivela come è veramente. Ed era questo che interessava il mancato neuropsichiatra Scerbanenco.
Uno stile “sporco”
Il pezzo con cui ho iniziato ha anche un’altra peculiarità. Probabilmente rassicurato dall’accoglienza di Venere privata, mio padre accentua diversi aspetti “di frattura”. La trama, per esempio, si fa sempre più violenta e noir; il linguaggio, che si avvicina sempre più al parlato nei dialoghi, e ricorre massicciamente allo scorrere dei pensieri, al susseguirsi di riflessioni in frasi separate solo da virgole. È lo stream of consciousness, adottato dagli scrittori anche per romanzi intimisti, e che invece Scerbanenco piega ai rabbiosi pensieri di un arrabbiatissimo Duca Lamberti. Anche in questo è stato padre dei giallisti italiani contemporanei, perché ha mostrato quanto fosse possibile osare con l’italiano, facendo saltare le regole sintattiche e di punteggiatura, creando una lingua adatta all’azione e all’ira. Molti autori di crime fiction hanno seguito questa lezione, abbandonando gli stili letterari per sfruttare tutta la ricchezza di significato dell’italiano quotidiano, restituendo così il delitto alla vita vera. Quando leggo critiche allo stile di mio padre, per esempio che era “trascurato”, o “poco colto”, mi pare sempre che non si comprenda la modernità di questa sua coraggiosa scelta, una scelta tra l’altro difficile, perché l’italiano è, in sé, una lingua letteraria. Inoltre, non si trattava di una scelta casuale, dovuta all’ignoranza del suo autore, ma ricercata, sperimentata e perfezionata da un romanzo all’altro. Mio padre sapeva scrivere in molti stili. Grazie alla sua lunga carriera di giornalista, sapeva scegliere il modo adatto per rispondere alle sue lettrici o dare più forza a una delle vite vere che gli inviavano. Sapeva come affrontare un articoletto su un personaggio storico o una diva del cinema; o come rispondere a un’intervista sul valore della verginità o sui giovani ribelli degli anni ’60.
Ho riletto questo romanzo per la prima volta dopo aver sistemato le carte di mio padre, il che ha significato leggere molti appunti e note personali, lettere e progetti degli ultimi anni. Così sono stata colpita da alcune cose che prima non avevo notato. Mio padre era indubbiamente un uomo dei primi del ’900, conservatore, ma con un po’ di dannunziana follia, un po’ di assenzio della Belle Époque, e molti tormenti interiori, dovuti a una vita densa di tragedie.
Di conseguenza, ho spesso pensato che l’epoca che si avvicinava, il ’68 della politica, il terrorismo, ma anche le stragi di Stato, gli fossero estranei e illeggibili. Invece in questo romanzo, tra una riga e l’altra, mi pare che mio padre e Duca Lamberti prendano coscientemente posizione, in favore di una responsabilità sempre e solo personale, rigidamente kantiana, testardamente al fianco delle vittime. Ho pensato anche che la sua morte precoce, a soli cinquantotto anni, ci ha portato via molto. Chissà cosa sarebbe stato in grado di fare e scrivere in quei ’70 travagliati! Magari sarebbe stato una voce diversa nel panorama letterario e cinematografico di quegli anni.
Questo romanzo è forse il meno citato dei quattro di Duca Lamberti, eppure sotto la storia apparentemente semplice ma avvincente, è il più ricco, quello che più ci restituisce la complessità del suo autore e dei primi anni ’60 a Milano.
E forse non a caso – riporto qui una voce che mi è giunta più volte – Traditori di tutti/Americano e fesso piace molto agli addetti ai lavori, su entrambi i lati della barricata.
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