Nel romanzo L’ultima città gentile (Homo scrivens, 2024), Giovanni Scipioni immagina un futuro non troppo lontano in cui, per salvarsi da una terribile epidemia, la nostra specie ha dovuto creare degli esseri ibridi tra le piante e l’uomo, e li ha spediti nel cosmo. È nata così la città gentile, lontana anni luce dalla terra, dove tutti i disastri della convivenza sembrano dimenticati. Un’arcadia in cui non si piange e non si muore ma si sparisce senza lasciare tracce
Le piante, le piante, è il momento delle piante. Che fossero belle e utili lo abbiamo sempre saputo. Che siano indispensabili per la salvezza della terra lo andiamo sperimentando ogni giorno. Ormai i giardinieri sono maîtres-à-penser e gli architetti non possono progettare nulla senza metterci una parete vegetale, un bosco verticale, un giardino pensile.
Ma soprattutto le piante sono diventate un modello di organizzazione sociale, ci sembrano offrire delle soluzioni di vita, delle risposte ai nostri problemi. Ammiriamo la loro straordinaria abilità di adattarsi, la facilità con cui migrano e si integrano nei nuovi ambienti, il modo in cui intrecciano rapporti tra di loro come se comunicassero.
Le vediamo sempre più come un paradigma di convivenza non aggressiva, pacifica, collaborativa. Si comincia persino a parlare di un a nuova disciplina, la botanica sociale (è appena uscito da Altraeconomia un libro di Mauro Ferrari con questo sottotitolo).
Adesso le piante sbarcano anche su altri pianeti, nel senso che entrano nella fantascienza come ingrediente fondamentale. La città gentile di cui ci parla Giovanni Scipioni nel romanzo appena pubblicato da Homo scrivens (L’ultima città gentile, 2024) è infatti una strana città del futuro popolata da piante, o meglio da esseri ibridi, nati da una sorprendente mescolanza tra geni umani e geni vegetali, che agiscono come esseri umani ma sono gentili e pacifici come le nostre amiche verdi.
Infatti, i protagonisti si chiamano Aconito, Oleandro, Dulcamara, Nepete, Artemisia, Giusquiamo o Stramonio. Hanno tutti nomi di piante, tranne l’unico terrestre che vive sul pianeta, Alexander. Secoli prima una pandemia dilagata sulla nostra vecchia terra ha minacciato l’estinzione completa della specie, ed è stato necessario accelerare, un po’ azzardatamente, le sperimentazioni in corso per ibridare umani e vegetali, e spedire i risultati verso Aldebaran, la stella che ospita un pianeta gemello sul quale far continuare la vita.
La morte in un’arcadia tutta vegetale
È nata così la città gentile, lontana anni luce (è il caso di dirlo) dall’aiuola che ci fa tanto feroci, e dove infatti tutti i disastri della convivenza tra umani sembrano dimenticati. È un’arcadia tutta (o quasi) vegetale, in cui il sindaco viene eletto a cena, mentre i commensali chiacchierano, e subito festeggiato con un volo di palloncini, come nelle feste dei bambini dopo il taglio della torta. E di feste Godeborg (questo il nome della città) abbonda, perché i condómini ne organizzano una ogni giorno, a turno, fino a che non è finito il giro del condominio e si ricomincia, altro che le nostre assemblee condominiali.
Non si piange e non si muore ma, letteralmente, si sparisce senza lasciare nessun cadavere in decomposizione: la morte non si deve vedere. Non si possono, ovviamente, recidere fiori e piante, e anche gli animali del circo sono stati liberati molto tempo prima.
Si può fumare solo di notte, e se si è in riva al mare. Gli abitanti si trastullano con passatempi innocenti, ammirano i disegni creati ad arte su una superficie acquatica, fontana o laghetto, come nella installazione di Giuseppe Penone alla Venaria reale.
Et in Arcadia ego, però. Anche in questo mondo di pace e di gentilezza reciproca arriva la morte, come nel quadro di Poussin in cui i pastori scoprono una tomba nel bel mezzo della pace agreste. Anzi qui di morti ne arrivano più di una. Stramonio, il giardiniere, scopre un corpo decapitato e solo dopo giorni Alexander riuscirà a ritrovare la testa grazie a Dulcamara, della quale è silenziosamente innamorato.
Perché il corpo dell’ucciso non si è dissolto nell’aria, come dovrebbe accadere agli abitanti della città gentile? E perché è accaduto lo stesso a un gruppo di atleti, che, forse fidando nella capacità degli abitanti vegetali di Godborg di vincere le leggi di gravità, si è gettato da un palazzo ed è perito? Lentamente, scopriamo che anche nella città gentile si è insinuato il bacillo del male, e dietro le apparenze di pace e tranquillità covava qualcosa di eversivo.
Mescolando i generi della fantascienza e del thriller, trasponendo situazioni classiche dell’una e dell’altro in una versione inaspettata, Scipioni ha creato un congegno in cui divagazioni utopiche e morti misteriose si uniscono a tenerci avvinti al racconto. E non temiamo di spoilerare se diciamo che nel turbamento di questa città gentile, nel rovesciamento dell’idillio in dramma, gli umani, i vecchi umani della vecchia terra, c’entrano qualcosa.
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