Nel paesaggio, in antropologia, in urbanistica: è sempre più un valore positivo e si differenzia dal “selvaggio”. È il terreno di confine, lo spazio marginale e semi-naturale: quello che Clément ha chiamato terzo paesaggio
È il momento del selvatico. Del selvatico, precisamente, non certo del selvaggio. “Selvaggio” è una parola aggressiva, indica qualcosa che si vuole svalutare. I popoli che oggi chiamiamo indigeni o autoctoni un tempo erano i selvaggi. Gli animali non addomesticati, quelli che fanno paura, li chiamiamo ancora selvaggi. Se diciamo di qualcuno che è un selvaggio stiamo dicendo non solo che è ineducato, ma che fa cose che non ci piacciono. Col selvatico, è tutta un’altra storia.
Tanto vero che ormai campeggia sui titoli dei libri, e attraversa le discipline come indice di un valore positivo, da salvaguardare. Selvatico e selvaggio, un tempo pressoché sinonimi, su stanno dissimilando, arrivando ad incarnare quasi due polarità contrapposte.
Un paesaggista giardiniere, Antonio Perazzi, tesse le lodi del giardino selvatico (La natura selvatica del giardino, Einaudi 2024). Un antropologo, Adriano Favole, evoca un via selvatica lungo la quale muoversi (La via selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza 2024). E solo poco tempo fa un’architetta, Annalisa Metta, prospettava il modello di una città selvatica. (Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride Deriveapprodi, 2022).
“Selvaggio” designa una natura nemica dell’essere umano, a lui opposta, minacciosa. Evoca un taglio netto, una contrapposizione. Questo taglio e questa contrapposizione è quello che va sfumando e cancellandosi nell’uso contemporaneo di “selvatico”, dato che il secondo termine designa sempre più una commistione, un incrocio, una osmosi.
Per l’antropologo Favole “selvatico” è sinonimo di “incolto”, innanzitutto nel senso in cui parliamo di terreno incolto. E non chiameremmo incolto un terreno inaccessibile alla coltivazione, piuttosto un terreno che potrebbe essere coltivato e non lo è, e soprattutto un terreno che è stato coltivato, o comunque trasformato dall’opera umana, e che è tornato in uno stato semi-naturale.
“Terzo paesaggio”
Se guardiamo agli esempi di “selvatico” che ricorrono nei tre libri di cui stiamo parlando, vediamo che proprio questo è il comune denominatore. “Selvatico” è un boschetto di ritorno che ha colonizzato una vecchia ferrovia abbandonata; un giardino creato lasciando nascere erbe e arbusti spontanei nelle spaccature dell’asfalto di una pista aeroportuale in disuso; la flora che si affretta ad invadere un sito industriale alla periferia della città, dopo che la fabbrica ha cessato di essere attiva.
Dietro ognuno di questi esempi è facile scorgere il modello che tutti li accomuna, che è quello teorizzato dal più famoso dei giardinieri-paesaggisti, Gilles Clément, che lo ha chiamato “Terzo Paesaggio” e lo ha divulgato attraverso un apposito Manifesto, pubblicato in Italia da Quodlibet. Il terzo paesaggio è fatto di spazi residuali, incolti, marginali, che siano i bordi dei campi coltivati, le scarpate delle ferrovie e delle autostrade, i terreni di periferia invasi dai rovi. Un paesaggio che non è più costruito, urbanizzato, e non è ancora campagna coltivata; un terreno che non è “civilizzato”, ma neppure natura pura, intatta, come un bosco naturale o la cima di una montagna.
Clément ha creato una vera rivoluzione nel gusto del paesaggio, portandoci a valorizzare ciò che prima era considerato frutto di trascuratezza e di abbandono, insegnandoci ad apprezzare le “erbacce” che nascono spontanee. Ha creato parchi e giardini in cui il giardiniere cerca soprattutto di assecondare l’opera della natura.
Elogio delle erbacce è anche il sottotitolo del libro di Perazzi; e anche per lui il paesaggista deve “stare in ascolto delle proprietà del selvatico”, fare il meno possibile e facilitare il lavoro spontaneo della natura, rendendo gli interventi “quasi invisibili”. Il giardino naturale, scrive Perazzi, riposa comunque su di un po’ di illusione, resta un ossimoro.
Giardini naturali: un ossimoro?
Questi propositi possono ricordarci un altro ideale di giardino, il giardino “all’inglese” la cui moda si diffuse in Europa a partire dalla seconda metà del Settecento. Anche il quel caso, si trattava di un giardino che cercava di dissimulare la sua natura artificiale, creando l’illusione di essere soltanto natura spontanea: boschetti sparsi apparentemente a caso, ruscelli e laghetti che parevano non disegnati; perfino le recinzioni erano abbattute e sostituite da fossati, in modo che l’occhio non percepisse la soluzione di continuità rispetto alla natura circostante.
Le somiglianze, però, finiscono qui, perché il giardino inglese, che voleva opporsi al giardino geometrico alla francese o all’italiana, con le sue piante squadrate, le aiuole geometriche, i labirinti di verzura, si inserisce appieno in una ben diversa rivoluzione del gusto paesaggistico, quella che si compì nel Settecento e venne consacrata dal Romanticismo. Proprio quel gusto rispetto al quale possiamo oggi misurare lo scarto prodotto dal nuovo ideale del selvatico.
Per molti secoli la natura ritenuta bella, apprezzabile, amica dell’uomo era stata la natura coltivata, frutto del lavoro di addomesticamento compiuto dall’agricoltura e dal lavoro. Finché le civiltà sono state in collisione con la natura selvaggia, hanno avvertito come una minaccia quanto restava al di fuori dal perimetro della civiltà: la foresta fonte di pericoli, il deserto inospitale, il mare aperto e le sue tempeste, l’alta montagna con i suoi precipizi e le sue insidie.
I viaggiatori che attraversavano le Alpi chiudevano le tende della carrozza su cui viaggiavano e le riaprivano una volta giunti in pianura, dove ritrovavano un paesaggio familiare. In pochi decenni cambia tutto, e la montagna, già per Rousseau, diventa l’ideale della bellezza della natura, come poi lo saranno le spiagge deserte del pittore Caspar David Friedrich, i mari in tempesta di Turner, le montagne di Segantini. Il critico d’arte Roberto Longhi ironizzava sul fatto che per noi moderni la natura diventava bella dai mille metri in su.
Dall’estetica all’etica
Dunque, ciò che di nuovo porta con sé la voga del selvatico non è l’amore per la natura selvaggia e incontaminata, d’altronde sempre più difficile da trovare, e che ha dominato il gusto per più di due secoli, rendendo semmai difficile l’apprezzamento per la campagna coltivata, la sola che sembrava degna di interesse per gli antichi. L’amore romantico per la natura selvaggia si reggeva sulla contrapposizione con la natura familiare, e continuava a pensare la prima come separata e lontana; non più temibile ma pur sempre altra. Il modello del selvatico cerca invece di pensare una contiguità tra l’intervento umano e la natura stessa, un intervento il più lieve e rispettoso possibile.
«Uno dei problemi della nostra società», scrive Perazzi, «sembra essere quello di risolvere la dicotomia tra selvatico e civile». Risolverla per esempio imparando dalla natura. Restando in ascolto di quanto il selvatico può suggerirci. Per esempio, la sua esuberanza: chi lascia spazio nel proprio giardino alle piante spontanee è sorpreso innanzi tutto dalla loro caparbia resistenza e capacità di diffusione: basta cambiare prospettiva e le erbacce contro le quali lotteremmo con grande fatica nei nostri orti diventano risorse, se solo rinunciamo all’ordine ad ogni costo.
Oppure la sua capacità di accogliere il diverso, l’estraneo. Invece di stilare elenchi di specie “accettabili” in quanto autoctone, perché non lasciarsi ispirare dalle piante “invasive”, e la loro straordinaria resistenza? La xenofilia, l’apertura verso le specie provenienti da altri ambienti, è un filo che percorre il libro sul giardino di Perazzi, quello sulle città selvatiche di Metta, e anche, ma qui è già più scoperto il passaggio dalle piante agli esseri umani, quello sulla Via del Selvatico di Favole.
E tutti e tre ricercano un rapporto con la natura, un regime per i nostri parchi e giardini, che si sforzi di imparare dalla natura ad economizzare le risorse. Il giardino selvatico è un luogo che cerca di fare molto con poco, di creare una bellezza che non sia costosa in termini di sfruttamento dell’ambiente, anzi additi ad una collaborazione virtuosa.
Imparare ad apprezzare la bellezza schiva, non chiassosa, umile del selvatico diventa allora un imperativo nuovo per il nostro modo di vivere il paesaggio e la natura. E, per una volta, nel caso del paesaggio dall’estetica sembra nascere un’etica.
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