Tutte le religioni si sono interrogate e s’interrogano sull’aldilà, dando forma a un universo di credenze sconfinato e suggestivo. «Quando gli dei formarono l’umanità attribuirono la morte all’umanità e trattennero la vita nelle loro mani» è inciso in una delle tavolette che conservano l’antichissima epopea di Gilgameš, che risale al secondo millennio prima dell’era cristiana.

Le usanze funebri

Triste è dunque il destino dei morti in un mondo infernale immerso nell’oscurità e nella polvere.

Secondo un’altra tradizione assiro-babilonese la sorte dello spirito dei defunti diviene però più tollerabile a seconda del numero dei figli: mangerà del pane chi ne ha lasciati due, berrà acqua il padre di tre figli, e un cuore pieno di gioia sarà quello di chi ne ha avuti quattro. Il fatto si spiega con la maggiore possibilità di avere onori funebri, perché al contrario se un cadavere è abbandonato nel deserto il suo spirito non ha riposo.

Per lo stesso motivo sono indispensabili le onoranze funebri che costellano i poemi di Omero e di Virgilio, come appare anche dall’evocazione dei morti e dalle connesse pratiche negromantiche. Proprio queste, nell’undicesimo libro dell’Odissea e nel sesto dell’Eneide, permettono a Ulisse ed Enea gli incontri struggenti, rispettivamente, con la madre e con il padre. «Tre volte mi slanciai, il mio cuore mi spinse ad afferrarla; tre volte dalle mani, simile a un’ombra o a un sogno, volò via» ricorda Odisseo. Come fa Enea, che ad Anchise «per tre volte tentò di cingere il collo abbracciandolo e per tre volte, afferrata, sfuggì fra le mani l’immagine, pari ai venti leggeri e assai simile al sonno fugace».

La negromanzia era praticata anche nell’antico ebraismo, come confermano alcuni passi biblici e la proibizione nel Deuteronomio: non vi sia nel popolo «né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore». Lo stesso Saul, re d’Israele, chiede alla negromante di Endor di evocargli Samuele, «che sale dalla terra» e gli predice la morte imminente. Come puntualmente avviene. Un episodio che più tardi suscita inquietudine e discussioni anche tra i commentatori cristiani.

Sviluppatissime, ben documentate e più note sono le credenze e le usanze funebri degli egizi. Già nell’Antico Regno l’aldilà è collocato tra un cielo inferiore e uno superiore, dove le anime dei morti si confondono con la vita eterne delle stelle, come talvolta intuiscono i bambini. L’immagine si ritrova in una visione del libro apocalittico ebraico di Daniele: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre». Parlando della fine del mondo Gesù dice invece che «i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro».

Nelle Scritture ebraiche più antiche l’aldilà è raffigurato con tratti evanescenti: è lo sheol, un luogo sotterraneo e oscuro dove i morti vivono come ombre, lontani da Dio.

La resurrezione

Più tardi, dopo il VI secolo avanti l’era cristiana inizia a svilupparsi nell’ebraismo la convinzione – influenzata da tradizioni religiose orientali come quella persiana ma anche da filosofie ellenistiche – dell’immortalità dell’anima.

Di conseguenza si diffondono anche le credenze nella possibilità di purificarsi dalle colpe nell’aldilà – che può essere aiutata dalle preghiere dei vivi, come nel purgatorio cristiano – e nella resurrezione dei morti. Quest’ultima si ritrova in testi apocrifi ebraici, e successivamente nella fede dei farisei (diversamente da quella della classe sacerdotale sadducea che, ancorata al testo delle Scritture, resta invece tenacemente conservatrice) e nella tradizione rabbinica. Come confermano una benedizione della amidah, la preghiera quotidiana ebraica che si recita in piedi, poi i vangeli e gli Atti degli apostoli.

La tradizione dottrinale cristiana viene formulata successivamente. Nel 381 a Costantinopoli un concilio di vescovi orientali, che più tardi sarebbe stato riconosciuto come il secondo ecumenico, riprende la professione di fede (detta tecnicamente «simbolo») varata oltre mezzo secolo prima dal concilio di Nicea imposto nel 325 da Costantino. Completato con diverse aggiunte, il Credo niceno-costantinopolitano – riconosciuto dalla stragrande maggioranza delle confessioni cristiane – è quello usato più spesso nella messa e si conclude con l’affermazione della credenza nell’aldilà: «Aspettiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

Quest’ultima espressione è in greco l’equivalente del concetto temporale e spaziale che in ebraico è descritto come l’olam ha-ba: il «mondo a venire» ma anche il «tempo futuro» (tanto è vero che il greco aión diventa in latino saeculum). Come sarà questa «vita del mondo che verrà» sulla quale le tradizioni religiose e la riflessione cristiana sono così ricche? E come tornare parlare oggi delle «cose ultime» (novissimi in latino, éschata in greco, termine sul quale è coniato «escatologia»)?

Nell’insegnamento e nella predicazione il tema viene per lo più evitato. «Da molti decenni ormai, le riflessioni teologiche sull’escatologia cristiana iniziano con l’evocazione dell’immagine di “cantiere chiuso per restauri”. Ogni tanto arrivano nuovi materiali di arredo, appaiono nuove modifiche al progetto». Ma «continua a rimanere difficile intuire l’immagine dell’opera finita».

A riassumere in questo modo lo stato della questione è il teologo Pierangelo Sequeri in un libro recente (E la vita del mondo che verrà, Vita e Pensiero), scritto insieme al più giovane collega Davide Bonazzoli e a un biblista, Franco Manzi. I tre autori appartengono alla scuola milanese, in Italia probabilmente la più vitale e creativa, segnata però – anche in questo libro, pur interessante – da un’asperità di linguaggio che ne restringe la diffusione tra pochi addetti ai lavori. Limpida è al contrario l’innovativa Escatologia (Cittadella Editrice) di Ratzinger, a cui il libro però dedica solo una fuggevole nota.

L’escatologia

Al quadro impietoso del cantiere chiuso si aggiunge una considerazione ancor più amara e realistica. «Noi non soffriamo, oggi, dell’eccessiva proliferazione del dogma: patiamo la sua timida inerzia» diagnostica con sicurezza Sequeri, che ribadisce tuttavia la «intramontabile centralità del tema per l’ispirazione originaria della fede cristiana: che non sarebbe (quasi) niente se non fosse fede escatologica». Nota però che questa «caduta dei novissimi nella teologia e nella predicazione» è bilanciata «dall’affettuosa preghiera di intercessione per i morti, come anche dalla gioiosa intercessione dei santi per i vivi».

L’escatologia tocca aspetti scottanti, se ancora nel 1953 il gesuita statunitense Leonard Feeney, un conservatore estremo e apertamente antisemita, venne scomunicato dal Sant’Uffizio per aver sostenuto «la convinzione della condanna eterna di tutti coloro che muoiono nella condizione di extra-cattolici». Al contrario – ricorda Manzi che analizza le parabole evangeliche sul regno di Dio e sul giudizio finale – «la chiesa non osa pronunciarsi sulla dannazione eterna di nessuno».

Bonazzoli osserva che il giudizio, tema che affronta nel suo saggio, suscita «un misto tra curiosità e paura». Ma per introdurlo cita una preghiera di Alfonso Maria de’ Liguori – tratta dal suo Apparecchio alla morte, pubblicato nel 1758 – che mette lucidamente a fuoco la tensione tra la vita terrena e quella futura: «Giudice mio, voglio che ora in vita mi giudicate e mi punite, or ch’è tempo di misericordia, e mi potete perdonare; perché dopo morte sarà tempo di giustizia».

Di questa misericordia scrive Agostino nelle Confessioni (X,6,8). Dove si rivolge a Dio: «Ma cosa amo, quando ti amo? Non la bellezza del corpo, non la grazia dell’età, non il fulgore della luce, così caro, sì, a questi occhi, non le dolci melodie dei canti a tono variato, non la fragranza di fiori, unguenti, aromi, non la manna e il miele, non le membra fatte per gli amplessi carnali: non è questo che amo amando il mio Dio. Eppure, amando il mio Dio amo una certa luce e una certa voce e un certo profumo e un certo cibo e un certo amplesso: la luce, la voce, il profumo, il cibo e l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima una luce non costretta dallo spazio, dove suona una musica non incalzata dal tempo, dove olezza un profumo che il vento non disperde, e si gusta un sapore che la voracità non vince e un amplesso che la sazietà non scioglie. È questo che amo amando il mio Dio».

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