- Come vediamo dalle reazioni alle recenti accuse di violenza ricevute da Leonardo Apache La Russa, o dalla sentenza su una molestia subita a scuola da una giovanissima studentessa, il patriarcato misura certe cose per assoluti tautologici (l’uomo è uomo), e altre su un indulgente spettro di complessità (quanto era chiaro il no? quanto alcool aveva bevuto la ragazza? quanti secondi è durato il palpeggiamento?)
- Il patriarcato insomma funziona come il metro di Mary Poppins: un paradossale metro su misura, tarato su una certa persona. Quella persona perfetta, tuttavia, non esiste.
- La maschilità gioverebbe a usare di più, invece dei metri e righelli dritti delle misure competitive, quello morbido e analitico della sartoria. Subendo lo stesso scrupolo che infligge a chi gli è subalterno, il patriarcato si rivelerebbe così per la fregatura che è.
È sempre difficile spiegare cosa sia il patriarcato una volta per tutte, adottando una definizione concisa e comprensiva che non complichi troppo il discorso. È invece più intuitivo puntare il dito su quel che il patriarcato fa: sulle illogiche pratiche e strategie che adotta per sopravvivere, travestendosi magari da buonsenso, da disciplina, da natura, da tradizione, da misura di tutte le cose.
Misurare le vittime
Una cosa che il patriarcato fa molto bene è cambiare le regole che stabilisce lui medesimo, da un lato chiedendoci di credere ai suoi universalismi (i sessi sono due, il destino biologico è uno, la mamma è sempre la mamma) e dall’altro confondendo le acque col relativismo riservato alle conseguenze abbrutenti, frustranti e addirittura violente di quei dogmi inverificabili.
«L’uomo è uomo», fine della storia, ma se si adotta un analogo slogan come «No è no», oppure «Love is love», allora la tautologia non vale più e bisogna fare dei distinguo, srotolare il metro per stabilire fino a che punto quel «no» era chiaro, o quali diritti spettino in effetti a chi ama un membro del proprio stesso sesso.
È un trucco esercitato anche dal capitalismo per esempio, o dalle odierne recrudescenze dell’etno-nazionalismo: la logica per cui chi corrisponde o aderisce a un arbitrario sistema fa parte di un’indistinta omogeneità senza aggettivi (le famiglie, i contribuenti, gli italiani) mentre chi non è conforme passa al vaglio di esami scrupolosi, che ne misurino la diversità per certificarne il grado di legittimità.
Di qua una folla indifferenziata di “normali”, al limite punteggiata di “meritevoli”, di là una complessa tassonomia di “altri” da investigare, inquisire, misurare. Dal metaforico “profitto” di studenti e studentesse a quello materiale garantito a chi li sfrutta da lavoratori e lavoratrici, si misura sempre chi è debole.
Reagendo alla denuncia di suo figlio per violenza sessuale, il presidente del Senato Ignazio La Russa misura d’altronde il grado di ebbrezza della vittima senza considerare quello del presunto violentatore – come se un certo tasso alcolemico giustificasse il crimine di cui è accusato invece di confermarlo.
Se una ragazza viene palpeggiata da un membro del personale tecnico della sua scuola, come è accaduto a una giovanissima studentessa romana di recente, si contano i secondi della molestia che ha subìto e si decide che, sotto una certa misura di tempo, non era una violenza.
Mentre concetti come genere e sessualità non ammettono, agli occhi del patriarcato, alcuna ambiguità o complessità, il concetto di consenso o quello di stupro vanno misurati su un indulgente spettro di sfumature: un metro che, nell’esame di cosa sia la maschilità, rimane tradizionalmente arrotolato.
Il metro di Mary Poppins
Il patriarcato insomma funziona un po’ come il metro di Mary Poppins. Mi è sempre parso sospetto che gli antipatici oroscopi di quella striscia gialla non riportassero i nomi dei bambini alla loro altezza, ma solo il giudizio: incline al riso, ostinato, sospettoso, e così via.
All’altezza di Mary invece, che il metro definisce «praticamente perfetta sotto ogni aspetto», campeggia il suo nome in fioriti caratteri. E dunque il metro, direi, è fatto su misura per lei: c’è da chiedersi se a qualsiasi altra altezza corrisponda non dico una comparabile perfezione, ma almeno una parola gentile.
Lo scherzo paradossale di un metro-su-misura è proprio al cuore delle strategie del sessismo (e del razzismo, e del classismo): tarare il metro su una certa persona, su una certa categoria di persone, per esentarle da qualsiasi misurazione che non ne ribadisca la mera essenza.
Ammorbidire il metro
Non che misurarsi a vicenda non sia un comportamento tipico dei maschi, notoriamente addestrati a valutarsi in termini di lunghezza (della virilità o del corpo intero, con la manina orizzontale che dalla propria fronte, come in un saluto militare, oscilla alla fronte dell’altro per verificare chi è più alto).
Ma si tratta sempre di misure superficiali, verticali, da righello o da metro rigido, predicate sulla competizione diretta: un misurarsi nel senso competitivo e non analitico del termine.
È il metro dritto a essere una cosa da maschi: quello di metallo che si srotola in una sola direzione, detto tecnicamente flessometro, appeso alle cinture di operai e lavoratori, o quello di plastica, da scuola, su cui si contano i centimetri e che si brandisce come un pugnale o una spada.
Il metro morbido invece, quello senza nerbo adatto a misurare con precisione curve e diametri, quello che al limite può trasformarsi in una frusta o in un nastro da ginnastiche e stelle filanti, rimane culturalmente una provincia del femminile. Quale figura del resto è più emblematicamente femminea, agli occhi del patriarcato, della sarta?
Quando l’insegnante di matematica ci spiegò, alle elementari, le unità di misura, ricordo che ci chiese di procurarci un metro di fettuccia su cui avremmo poi segnato centimetri e decimetri col pennarello. Quasi tutta la classe se lo procurò alla stessa merceria di Roma sud, in cui negli anni Novanta sopravviveva ancora una mitologica sarta autentica, di quelle di cui avremmo poi letto alle medie imparando i primi rudimenti di storia del lavoro – e scoprendo che le nostre nonne cucitrici o maestre o segretarie contribuirono ai destini del boom economico col loro “secondo stipendio”.
È una sarta, anche se non altrettanto modesta, Silvia, che forse adoperava un metro di fettuccia anche lei per le «opre femminili» cui era «intenta» mentre Leopardi la ritraeva poeticamente dalla finestra dirimpetto, immedesimandosi in lei.
È una sarta anche la Accabadora del glorioso romanzo (2009) di Michela Murgia: un’amabile ma severa strega che col metro stabilisce le ultime misure degli uomini da vestire per la tomba, come le parche della mitologia greca che misurano le vite sul filo. In numerose iconografie tardo-medievali e della prima modernità anche la vergine Maria, come Minerva, è una sarta, sorpresa dall’angelo con un kit da cucito in cui però non ho mai visto un metro.
A misura, su misura
Doveva essere assai omosociale, per i gentiluomini di un tempo, farsi prendere le misure. C’è quella serie di fumetti Marvel, poi trasformata in film inglesissimi di botte, in cui gli agenti segreti di sua maestà si ritrovano in una sartoria londinese per ricevere missioni (un po’ come Junior Soprano, che in posa dal vecchio sarto italiano scopriva utili voci di strada), e nel capitolo ambientato nel 1902 quella sartoria è immaginata come un tempio di maschilità: di moda per soli uomini.
Era un uomo il grande sarto degli artisti del primo Novecento italiano, Adriano Pallini, la cui straordinaria collezione, curata dalla brillante erede Nicoletta, è in questi giorni in mostra a Milano.
Dicevo che il patriarcato adotta i famosi due pesi e due misure a seconda di ciò che deve misurare, ma mancavo di notare che il misurarsi analiticamente, oltre che una punizione o una sorveglianza, può essere anche un lusso. Il morbido metro di Pallini, o quello del sarto delle sofisticate spie di Kingsman, serviva non a valutare i corpi che avvolgeva ma a far sì che le stoffe non li costringessero in misure standard.
È il contrario del misurarsi agonistico o normativo di cui parlavo più sopra. D’altronde per fare un vestito su misura non è sufficiente prendere una misura secca, come fanno magicamente Mary Poppins e metaforicamente il patriarcato: il metro morbido e sartoriale serve appunto a prenderne numerose di misure, in una ricostruzione per porzioni della specificità cui adattare un modello che magari affratella tutti.
È un lusso che personalmente ho sperimentato, al contrario degli artisti e delle spie di un secolo fa, solo a tu per tu con misuratrici femminili: le mie nonne, che periodicamente misuravano le mie braccia, le mie circonferenze, le mie spalle e i miei polsi per confezionare maglioni natalizi che mi stessero a pennello, copiati da cataloghi e vetrine.
Il mondo è fatto a misura di maschio, ma a quella misura di uomo vitruviano (di adone pornografico, di cristologico figlio esemplare, o di meritevole vincitore in salute) non corrisponde, in realtà, nessuno. Il lusso di misurarsi in dettaglio, col metro morbido che serve al genio della lampada per fare di Aladdin un principe o al satiro allenatore per fare di Hercules un eroe, è anche utile a capire questa fregatura del patriarcato.
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