«Lo yoga era un’attività noiosa e passiva che si faceva restando in pigiama. Poi sono entrati in gioco gli americani ed è diventato uno sport». Una delle mie battute preferite della comica indo-americana Zarna Garg torna rilevante in occasione della Giornata internazionale dello yoga, istituita esattamente dieci anni fa dall’allora (e attuale) primo ministero dell’India Narendra Modi, che presentò alle Nazioni unite la sua proposta per rendere la disciplina indiana Bene Immateriale dell’Umanità.

Il mio rapporto con lo yoga è di puro ghosting. Frequento, sparisco, ogni tanto mi faccio sentire. Ho iniziato da ragazzina: in pigiama, appunto, sedevo su un tappeto fosforescente accanto a mia madre, indiana, medico, che prima di correre in sala operatoria m’imponeva un paio di posizioni nella speranza che queste calmassero la gastrite che mi prendeva prima d’ogni versione di greco. Eppure, essendo per metà indiana, l’aspettativa di molti in Italia è che io conosca gli asana quanto uno scozzese le regole del rugby. È un assioma corretto?

La storia

In molti considerano il primo testo di base sulla disciplina gli Yoga sutra di Patanjali (risalenti attorno al IV secolo d.C.) ma fior di esperti, ad esempio la studiosa Andrea Jain, considerano il legame tra la Civiltà della Valle dell’Indo e lo yoga “speculativo”. Sappiamo però con certezza che yoga e Ayurveda (la medicina tradizionale indiana) furono proibiti, respinti e derisi dalle potenze coloniali. Salvo poi prendere quanto, delo yoga, poteva tornare utile. L’amico ed esperto Mario Raffele Conti mi ha ricordato come secondo Mark Singleton (Yoga Body, ed. Mediterranee), il cambiamento dallo yoga tradizionale a quello moderno, cioè dinamico e deprivato della sua parte più spirituale, sia avvenuto proprio durante la colonizzazione britannica.

Le stesse che poi le accolsero con entusiasmo: la storica delle religioni Shreena Gandhi ritiene che negli anni Sessanta lo yoga sia diventato popolare al di fuori dell’India e dell’Asia meridionale grazie alla sua capacità di stuzzicare idee e stereotipi che americani ed europei avevano su India e indiani, ahimè proprio nel momento in cui l’India cercava di rivendicare la propria cultura post Indipendenza in modo autentico. Insomma, da quando i Beatles nel ’68 fecero il loro famoso ritiro a Rishikesh, nel mondo lo yoga non è più stato percepito allo stesso modo.

L’inizio dell’appropriazione

Secondo Rina Deshpande, ricercatrice e scrittrice, l’appropriazione culturale dello yoga passa prima per una sua “sterilizzazione” dei riferimenti alle radici e alla storia, per adattarli meglio ai praticanti occidentali, per poi procedere ad una esotificazione e la commercializzazione non solo dello yoga, quanto della cultura indiana.

Si parla, non a caso, di “yoga posturale”, a ricordare l’approccio fitness dello yoga moderno, i tappetini con impresse le immagini di divinità hindu, con i loro porta materassini in coordinato.

L’aspetto spirituale

Parlando di posture, vale la pena ricordare che lo yoga si divide in quelle che posso essere banalizzate come otto fasi, ma che chi ne sa considera le membra stesse della pratica: astensioni e osservazioni di norme etiche (yama e niyama); le posture che calmano la mente e disciplinano il corpo (asana); il controllo della respirazione – o meglio, la tecnica del controllo dell’energia vitale attraverso il respiro (pranayama); l’osservazione interiore (pratyahara). Le ultime tre sono concentrazione stabile (dharana), alla meditazione (dhyana) e infine allo stato di massima consapevolezza (samadhi).

Penso alla mia famiglia indiana, cattolicissima (altre questioni sconosciute agli italiani: il sud dell’India è stato colonizzato dai portoghesi e convertito al cattolicesimo), ma perfettamente consapevole della componente religiosa o quantomeno spirituale dello yoga. Semplicemente, l’uso è utilitaristico, ma consapevole e rispettoso.Mi viene in mente l’amica Shirin, professionista di origini musulmane, da sempre atea, ma affascinata dall’università S-VYASA di Bangalore, che porta avanti progetti scientifici legati alla pratica diffusa da Vivekananda.

Certo, secondo la Jain, da un lato al celebre monaco-filosofo Vivekananda va imputato il tentativo di portare avanti un approccio che lei definisce accomodante e globale, che enfatizzi l’universalità dell’induismo e de-enfatizzi invece concetti più legati all’identità nazionale. Dall’altra, continua Jain nel suo libro Selling Yoga (Oxford University Press), varie forme di nazionalismo religioso come il movimento di destra Rashtriya Swayamsevak Sangh (vicino al primo ministro Narendra Modi) hanno invece lottato contro la sua diffusione globale.

La questione politica

Ed è un tema interessante, perché da un lato c’è chi, nell’India di oggi, teme una politicizzazione in chiave hindu dello yoga: è innegabile che Narendra Modi ne abbia fatto uno strumento di soft policy nazionale, o yoga diplomacy, come la definisce Shameem Black nel suo Flexible India (Columbia University Press).

Quando a Delhi ha guidato 35mila persone in una gigantesca pratica, continua Black, Modi ha per estensione presentato la nazione come autorevole, disciplinata e pacifica.

Appropriazione indebita

Rischi di derive a parte, Gandhi non ha tutti i torti, quando sostiene che ignorare le radici, la storia e le filosofie della pratica a favore del suo utilizzo come “puro esercizio” è una forma di cancellazione e appropriazione culturale – io direi piuttosto appropriazione indebita. Il significato di base della parola yoga, e della sua radice yuj, è “unione”: filosoficamente questa unione si riferisce al congiungimento dell’individuo (jiva) con il Brahman, singolare ed eterno.

Mi viene in mente uno degli angoli d’Italia dove ho visto praticare yoga e mi sono sentita in India: l’ashram di Altare, nomen omen, sopra Savona, dove vive una comunità monastica basata sui fondamenti etici e religiosi dell’induismo.

Va mantenuta la veridicità dello yoga, mi diceva la monaca Shuddhananda, ricordandomi che a) lo yoga andrebbe chiamato ortoprassi, non religione; b) se parliamo di Ganapati asana (peraltro la mia divinità preferita, un bonaccione con la testa di elefante, il panciotto tondo e una propensione a rimuovere gli ostacoli), l’aspetto spirituale sta lì, nel nome del divino cui è riferita.

Il consumismo

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Ma quando il divino c’è, è facile preda del mercato. Anni fa l’amica Shubhangi mi ha portata in un piccolo centro di yoga e ayurveda a Goa: pantaloncini larghi e le magliette sformate, un maestro dal fisico tozzo e ventre prominente, il flusso di parole lento, la stanzetta spoglia. A pochi metri di distanza, tra i caleidoscopici baracchini presi d’assalto dai nostalgici dei Beatles, un altro centro, con una lavagnetta da bar aperta con l’avviso: 150 Hour Yoga Teacher Training, diventa insegnante di yoga in tre settimane.

La critica più ricorrente che sento muovere dagli insegnanti di yoga indiani è questa: ad essere mercificato è lo stesso insegnamento della pratica. In occidente la domanda è altissima e sui social lo yoga si vende alla grande: in India, la quota di mie conoscenze che pratica senza ghostare come faccio io, si conta su una mano. In Italia, parliamo di un quinto della mia rubrica del cellulare, che sale se restringo alla sola Milano. Su Instagram, lo yoga ci racconta di corpi tonicamente magriformi, leggings neri in spandex e maglie sovrapposte accuratamente, materassini (pardon, yoga mat) dai colori sobri e dallo spessore calibrato, che assicurano «grip, stabilità e praticità, con un occhio all’ecologia». I claim dei brand di yoga sono un piccolo capolavoro di bilanciamento, nel quale scompaiono religione, spiritualità o filosofia, ma va per la maggiore la sacra sillaba Om, che fa esotico, è sobria, non appesantisce i loghi.

Jean Baudrillard sostiene che i consumatori costruiscono l’identità di sé che desiderano consumando ciò che pensano sia indicativo di quell’identità di sé. Oggi lo yoga si pratica ridendo, bevendo birra o mangiando cioccolato, facendo acrobazie, accarezzando caprette e persino immergendosi sott’acqua. Non solo non lo si fa più in pigiama, ricorda Zarna Garg, ma è diventato sexy, entusiasmante, chic.

Mia zia che ogni sera, alle 18, nella periferia di Mumbai, lega i capelli ricci e corvini, sposta il tavolino della sala e stende sul pavimento di pietra lucida prima una stuoia, poi una pesante coperta. La seguo per un paio di posizioni al massimo, prima di andare in apnea da sforzo. Vengo richiamata all’ordine per finire con le rumorose respirazioni Bhastrika. Versi, rumori corporei, sputi troppo poco hipster per finire su Instagram. Studiose come Andrea Jain e Sarah Sharma sostengono che la crescente popolarità dello yoga rifletta il crescere di pratiche capitaliste e il fatto che le persone oggi cerchino il proprio accrescimento personale nel mercato. Ma questo forse trascende il solo yoga.

In occasione del 21 giugno, basterebbe tenere a mente il rischio dell’appropriazione indebita, senza cadere nell’integralismo culturale né nell’autocensura, ma impegnandosi in una prospettiva più connessa con la cultura di riferimento. Inizierei dal “Namaste”. (Quasi) nessuno in India vi saluterà così, nella vita quotidiana. Significa infatti: “Mi inchino al divino che è in te”. In qualche caso, e con un po’ di realismo, forse un “grazie” sarà più che sufficiente.

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