In otto ci siamo dimessi da Zolfo, casa editrice nata per scrivere l’inscrivibile, per un brusco cambio di rotta. Dalle inchieste al brivido caldo dei primi titoli si è passati a più prevedibili innocue narrazioni sulla sicilitudine
Ce ne siamo andati via. Ce ne siamo andati perché non ci piacciono i voltafaccia, perché non crediamo alle fiabe su una Sicilia che non c’è e non c’è mai stata. Ce ne siamo andati in massa. Il poliziotto che ha indagato al fianco del giudice Falcone e l’ex direttore dell’Espresso, lo storico che è il figlio di Pio la Torre e il presidente di un teatro di Trieste, il cacciatore di scoop e la raffinata penna di cultura. Più qualche altro ancora. E naturalmente anch’io. Spiazzati, tutti, da uno sgarbato mutamento di rotta.
È
finita malamente l’avventura di una casa editrice nata corsara e che dopo cinque anni si è ritrovata a galleggiare nelle più rassicuranti acque che bagnano la solita isola fatta di apparenze e appartenenze, con tribù che si riconoscono come tribù anche fuori dai loro confini d’origine, con bagliori di superficie che nascondono vizi antichi.Ce ne siamo andati da Zolfo, primo titolo in catalogo nel 2019 un’inchiesta sull’Italia infetta con al centro l’ex vicepresidente di Confindustria Calogero Antonio Montante detto Antonello, prossimo libro in uscita a novembre 2024 un saggio sulla Sicilia firmato da uno dei cantori del Padrino dell’Antimafia con una novella sulla falsa impresa industriale degli avi di quell’Antonello. Una contorsione che qualcuno di noi ha vissuto come una sorta di sfregio, un tradimento all’identità di una casa editrice che porta un bellissimo nome in onore della terra che brucia sotto la terra. Una casa editrice, soprattutto, che si era presentata al pubblico come “diversa”, pronta a scrivere l’inscrivibile. Altra, purtroppo, la piega che ha preso Zolfo.
Quella che sto raccontando potrebbe sembrare una vicenda personale – mia e degli altri sette soci fondatori che hanno disertato (Franco La Torre, Maurizio Ortolan, Enzo D’Antona, Enrico Bellavia, Piero Melati, Franco Viviano e Alberto Stabile) e quasi tutti con le stesse motivazioni – in realtà è una storia che rivela meglio di tante altre come certi siciliani, e per imperscrutabili motivi, sono sempre pronti a divorare anche sé stessi. Un cannibalismo molto particolare.
Furbizie paesane e amicizie
La difficoltà a tenere fede a taciti patti e furbizie paesane a favore di legami amicali hanno poi trascinato Zolfo in qualcosa che – secondo noi – si sta trasformando in un’altra cosa. Ecco perché non abbiamo voluto più stare lì dentro.
L’impulso che ci aveva spinto ad impegnare anche risorse economiche significative in una casa editrice per diventarne soci e autori nello stesso tempo, era quello di costruire un laboratorio di idee. Una sfida persa. Pessimi i rapporti dell’editore-amministratore delegato Calogero Lillo Garlisi con una squadra di autori di primissima scelta, un comitato editoriale che non c’è mai stato per paura di cedere troppe libertà, risultati economici e di vendite tutt’altro che lusinghieri.
Una dozzina di titoli l’anno, qualcuno ristampato dalla Melampo di cui Garlisi era socio con Nando dalla Chiesa, una scarsissima visibilità sugli scaffali delle grandi librerie. Un tirare avanti alla meno peggio, tanti malumori, fino a quando in primavera è precipitato tutto.
È stata la comunicazione trionfante di quel pamphlet di Gaetano Savatteri a dare inizio al balletto. Savatteri, persona rispettabilissima ma con un profilo professionale assai lontano dagli altri giornalisti di Zolfo (e anche lui socio della prima ora per volere dell’editore), è quello che aveva messo il suo nome sulla ricostruzione inneggiante alla famiglia Montante. Ma a scatenare la reazione a catena fra i fondatori non è stato certo lui, quanto piuttosto chi non ha garantito una continuità di contenuti e non ha saputo tenere la barra dritta. Dalle inchieste al brivido caldo dei primi titoli a più prevedibili innocue narrazioni e divagazioni sulla sicilitudine. E la casa editrice corsara che aveva promesso fuoco e fiamme? E i libri maleducati e disubbidienti?
Il richiamo irresistibile alle radici
A dire il vero un disagio era stato avvertito pure prima. Ancora inspiegabile ciò che è accaduto a Roma fra l’8 aprile e il 25 giugno. Gli autori di Zolfo avevano organizzato una rassegna dei loro libri, la prima in assoluto, otto presentazioni nel favoloso scenario della Casa del Jazz che è un bene confiscato alla Banda della Magliana, il luogo ideale per una casa editrice che come core business ha sempre avuto mafia e antimafia. Un successo, quasi 800 partecipanti, tanta qualità di interventi. L’editore però ha snobbato con enigmatica ostinazione l’evento. E non solo non si è mai fatto vedere o sentire (neanche una telefonata di ringraziamento a chi ospitava gratuitamente la rassegna), ma ha preferito in quei giorni concentrarsi, eccitatissimo, su un altro appuntamento – con rispetto, rassegna più modesta – nella sua Agrigento. Il richiamo delle radici, forse è questo il vero buco nero di Zolfo.
Poi, quando già era scoppiata la crisi, un altro episodio ha definitivamente convinto gli ultimi indecisi a staccarsi. Confronto fra soci, qualcuno che lamentava lo sbandamento della casa editrice, alle 13.25 del 12 luglio una mail di risposta di Carmelo Sardo, giornalista del Tg5 e anche lui agrigentino come Garlisi e come Savatteri: «...Ribadisco con nettezza che Zolfo non ha perso la rotta...».
Alle 19 di quello stesso giorno era prevista la presentazione di un libro di Sardo a Raffadali, paese dei famosi Cuffaro. Era Silvio, sindaco di Raffadali e fratello del più noto ex governatore Totò condannato per favoreggiamento alla mafia, che faceva gli onori di casa all’autore e al suo libro. L’abbinamento Zolfo-Cuffaro a molti di noi non è sembrato felicissimo.
Ipocrisie e luoghi comuni
Il dibattito interno (gli altri soci, quelli rimasti, naturalmente sono anche loro tutti rispettabilissimi) è stato comunque un po’ ipocrita. C’è chi ha fatto finta di niente sulle cause del nostro allontanamento, chi sta ancora cercando spiegazioni. Spiegazioni che non troverà mai perché – semplicemente – non ci sono. Quel che è successo è successo perché c’è modo e modo di essere siciliani. E, infatti, certi siciliani credono che si possa fare tutto con tutti (con il sorriso sulle labbra) e che si possa anche fare tutto e il contrario di tutto (sempre con il sorriso sulle labbra). Non c’è mistero: sono fatti così.
Quando ero ragazzo, una quarantina di anni fa, mi hanno raccontato una storiella ambientata a Sciacca.
Vecchio luogo comune vuole che la Sicilia venga considerata il laboratorio politico d’Italia, mentre a Palermo si è sempre detto che il laboratorio politico della Sicilia sia la provincia di Agrigento. E ad Agrigento, infine, sostengono che il laboratorio politico della provincia agrigentina sia Sciacca. Di Sciacca, anche se nato a Racalmuto, è proprio Calogero Lillo Garlisi cresciuto lì prima di emigrare a Milano per conquistare una prestigiosa laurea alla Bocconi.
Ecco la storiella. A Sciacca, negli anni Settanta, tutti facevano la stessa domanda allo stesso elettore. Per chi hai votato alla Camera? «Ho votato per l’onorevole Calogero Lillo Mannino della Democrazia cristiana». E alla regione, per chi hai votato? «Ho votato per l’onorevole Michelangelo Russo del Partito comunista».
E al Senato? Rispondeva l’elettore: «Il voto è segreto». Mimmo Segreto era il candidato fisso a Palazzo Madama del Partito Socialista. Lo stesso elettore copriva con il suo voto tutto e tutti.
Dalle parti di Sciacca qualcuno, nel frattempo, non si è accorto che il mondo è diventato un altro mondo. E comunque: viva la Sicilia, viva i libri, viva San Calogero.
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