È invidiabile essere figli di un grande intellettuale, psicoanalista junghiano, e ritrovarsi dopo la sua morte ad abitarne la casa? Il romanzo autobiografico di Emanuele Trevi fra comicità e pietas
Mio padre aveva la quinta elementare, a quarant’anni ha preso la licenza media e poi il diploma di ragioneria alle serali. Il titolo di studio gli serviva per poter lavorare in ufficio, togliendosi via dai turni di notte al porto di Venezia. Faceva il controllore merci: verificava che le navi dichiarassero ciò che effettivamente scaricavano. Non era un mestiere tranquillo, c’erano incidenti, un suo collega era morto schiacciato sotto cataste di tronchi male impilati, rotolati su di lui mentre li contava.
Non sono figlio di intellettuali. Ciò ha fatto sì che le mie scelte di vita – leggere e scrivere – le senta del tutto mie. Non sono derivate dalle condizioni culturali che ho trovato in famiglia. Lo dico per mettere in chiaro da quale prospettiva esistenziale ho letto l’ultimo libro di Emanuele Trevi. Mi interessa chi ha avuto un destino diverso dal mio.
Padre intellettuale
La casa del mago mi è piaciuto molto, l’ho letto con gusto e lo sto consigliando a tutti. Bene, fatto il mio dovere mercantil-culturale, passo alla cosa che mi preme di più: invidio a Emanuele Trevi di essere figlio di un intellettuale? (Mario Trevi, junghiano, era uno dei più importanti psicologi analitici italiani del Novecento). No e sì. Se avessi avuto un padre così colto, non potrei raccontarmi la favola dell’autonomia delle mie scelte.
D’altronde, essere figlio di Mario Trevi mi avrebbe risparmiato un sacco di tempo ed errori, facendomi scoprire fin da subito una quantità di meraviglie e conoscenze. Se non altro, un padre così mi avrebbe passato le bibliografie giuste. È vero che, retrospettivamente, uno finisce per affezionarsi anche alle proprie perdite di tempo, ma è un fatto che il sapere trasmesso in casa aiuta. Il figlio di Leopold Mozart ne sa qualcosa.
Pietas ironica
La casa del mago è un romanzo autobiografico che racconta come l’autore protagonista, dopo avere cercato inutilmente di vendere l’appartamento del padre, ha deciso di tenerselo, riscattando l’altra metà ereditata da sua sorella, e come è riuscito faticosamente a fare pace con quegli anfratti sinistri, con i loro spettri e ricordi e suppellettili totemiche. Non è facile farsi spazio nel mondo, soprattutto quando il tuo angolo sembra coincidere con quello posseduto da tuo padre (e “posseduto” va inteso soprattutto nel suo senso demonico).
Il romanzo celebra un rito di pietas filiale all’altezza dei nostri tempi ironici e disincantati. Raffigura con amore e spasso un padre ombroso, astratto, imprendibile, prevedibile e sorprendente. Capace di voltare le spalle a Emanuele bambino dimenticandoselo nelle stradine veneziane durante una gita; ma capace anche di stare ad aspettarlo per giorni seduto in poltrona davanti alla porta d’ingresso, quando Emanuele, da ragazzo, va a Firenze in autostop per un concerto di Lou Reed e rientra a casa dopo due notti.
Ci sono capitoli saggistici, dal tono sempre cordiale, su casi clinici junghiani; aneddoti di guerra, pallottole tedesche che sfiorano il soldato Trevi impiegato in una rocambolesca missione; e squarci dal dopoguerra, quando il giovane Mario si deprime e va in analisi dallo junghiano Ernst Bernhard: lo stesso che ebbe in cura Cristina Campo, Natalia Ginzburg e Federico Fellini, gentucola così. Ammetto di avere letto quelle pagine provando un senso di esotismo classista: per mio padre, quasi coetaneo di Mario Trevi, non solo andare da uno psicologo ma perfino l’essere depressi dovevano apparire esperienze lunari; in quegli anni era troppo impegnato a mantenere i suoi fratelli facendo lo sguattero nelle cucine degli alberghi veneziani.
Per Emanuele, Mario Trevi resta comunque un enigma come “mago” guaritore di anime; anche perché il figlio non ha mai visto in azione il padre, non avendo assistito alle sue sedute di psicoterapeuta (leggendo ho sperato che il giovane sbarazzino Emanuele lo avesse spiato almeno una volta, ma così non è stato).
Degenerata e Paradisa
La verità è che, a qualche settimana dalla lettura, quella che mi è rimasta più impressa è la sottotrama sudamericana, molto divertente. A un terzo del libro entra in scena Degenerata: è il soprannome di Rocio, la «donnetta peruviana» che fa le pulizie in casa di Emanuele.
È indolente e inetta: l’autore narrante cerca più volte di disfarsene, si prepara i discorsi di licenziamento provandoli allo specchio: niente da fare, lui è così debole di carattere che invece di cacciarla finisce per accettare da lei un invito alla festa peruviana di compleanno della cugina, Paradisa, in un locale, il Chicken Planet, che fin dal nome promette quel che lascia immaginare. Come un nuovo Zeno Cosini, il personaggio Trevi si fa sciaguattare qui e là dagli eventi, dalle decisioni degli altri.
Con la quarantenne Paradisa, opulenta e odorosa di vaniglia, inizia ad andarci a letto, dandole dei soldi per la sua prima prestazione; lei li accetta. Fra i due si instaura un’intesa creaturale, che va al di là di intelletto e cultura e sesso; una fra le più originali relazioni fra uomo e donna raccontate nei libri di questi anni. In fin dei conti, a quei due piace guardare la tv sul divano: «questa intimità televisiva era diventata molto più profonda di quella sessuale, come del resto si verifica in innumerevoli legami».
Plastica e gemme
Nello scrivere libri come questo, Trevi ha un vantaggio: parte da un valore già consolidato, già canonizzato; ci racconta la figura di un intellettuale pubblico. È un tratto ricorrente della sua poetica: raccontare i fatti propri, ma coinvolgendo sempre una figura esistente e che abbia già acquisito uno spessore culturale, grande o piccolo che sia: Pier Paolo Pasolini, Laura Betti, Rocco Carbone, Pia Pera, Arturo Patten, Cesare Garboli, Amelia Rosselli, Pietro Tripodo.
Anche se i suoi libri non dovessero piacere (e a me sono piaciuti tutti, tranne Il popolo di legno, che è un romanzo di piena finzione), si può sempre dire che se ne esce avendo imparato qualcosa su persone considerate importanti, o che meriterebbero di esserlo. Mettendoli in fila, si vede come il critico letterario sia diventato a poco a poco un narratore ritrattista, per poi insinuarsi negli interstizi, allargandoli fino a dare spazio anche al suo autoritratto.
C’è un’altra opzione, opposta a quella di Trevi, in letteratura: prendere il quasi-niente e cercare di valorizzarlo; personaggi inventati o completamente sconosciuti, oppure esperienze autobiografiche che non legittimino il proprio racconto puntellandosi a persone notevoli (o ad avvenimenti epocali). C’è chi cerca di fare gioielli con la plastica e la ghiaia, e chi li fa a partire da oro e gemme. Sono possibilità diverse, tutte legittime. A me piacciono entrambe le vie. Mi sta istintivamente più simpatico chi lavora cercando di valorizzare il quasi-niente, ma leggo avidamente anche chi parte da un valore già riconosciuto, e Trevi è fra questi.
Un romanzo comico
La casa del mago è un romanzo comico; comico senza chiasso, in maniera avvolgente e sorniona. Non ci sono scene vividamente rappresentate passo passo, non ci sono dialoghi strutturati a catene di botte e risposte. Latita la presa diretta; eppure le occasioni di raffigurazione dal vivo ci sarebbero state, per esempio quando l’autore narrante è invitato alla festa peruviana al Chicken Planet.
La storia è attuffata nel discorso: la narrativa di Trevi è un monologo ampio, spaparanzato, pacioso, in cui il protagonista autore procede a velocità di crociera, senza scatti né rallentamenti, con placidità. Dal suo stile si ricava che la sua utopia esistenziale sarebbe proprio questa: vivere una vita che sia il più possibile narrabile con il tempo verbale imperfetto, “guardavo dormivo capivo”. Ogni tanto però qualche avvenimento interrompe la ricorsività delle abitudini: l’imperfetto grammaticale è smentito dall’aoristo esistenziale. Proprio da questo irrealizzabile desiderio di placidità nasce il comico, che in fin dei conti è un’obiezione spiritosa mossa dagli eventi alle aspettative di continuità indifferenziata.
D’altronde, il protagonista narratore non si risparmia le autodenigrazioni. Ce le fa arrivare come bollicine che salgono dal fondale marino del suo carattere entropico, arreso a sé stesso, rassegnato a essere quello che è. «Per me esistono solo gli altri, i sentimenti che provano per me, quelli che io provo per loro, non sto solo nemmeno quando dormo, si infilano tutti nella mia testa, e anche nei miei sogni continuo a temere che non mi vogliano più bene». E come non volergli bene, a un tipo così?
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