«Ero vittima di una specie di incantesimo malato. Tradita. Picchiata. Umiliata. Nel frattempo Max era il mio migliore amico, e poi è diventato la cura». Debora Pelamatti ha deciso di raccontare per la prima volta la sua dolorosa storia di dipendenza affettiva e di come l’amicizia storica con Max Pezzali l’abbia salvata quando lei era ormai convinta di non riuscire più a sottrarsi da una relazione malsana.

Quell’amicizia con Max, appunto, che si è trasformata prima in un balsamo e poi in un matrimonio celebrato nel 2019, che ha il sapore della rinascita.

«Sono sempre stata una donna forte e realizzata. Cresco in Val Camonica, ma mi sono laureata in Legge a Pavia. Ai tempi, quando ho conosciuto l’oggetto di questa dipendenza, mi occupavo della parte legale di una nota azienda, guadagnavo bene, ero felice».

Avevi avuto altre storie malsane?

No, solo due fidanzati che mi avevano trattata benissimo. I miei ex storici sono venuti al mio matrimonio con le loro mogli, per dire.

Come lo conosci?

Lui mi manda un messaggio su Facebook dicendo che mi aveva vista in un bar di Pavia e che ero bellissima con quell’abito verde.

Come inizia la storia?

Mi ammalia con gesti eclatanti, per il mio compleanno affitta un’intera spiaggia a Camogli facendola addobbare con candele. Mi diceva che ero la donna della sua vita, che l’amore l’aveva sognato così. Mi aveva messa al centro della sua vita, apparentemente.

Classico love bombing.

Sì, poi lui esibiva la sua ricchezza, comprava macchine costose, io lo assecondavo, gli regalavo magari la valigia di Gucci, andavamo nei locali che gli piacevano, amava sfoggiarmi.

Eri il suo accessorio di lusso.

Esatto.

Poi cosa accade?

Dopo alcuni mesi ricevo una telefonata dal mio primo fidanzato, che nel frattempo era diventato un caro amico: «No Debora, con Marco no, ti voglio bene, ma lui non è un uomo affidabile». E mi racconta alcuni aneddoti inquietanti sul mio fidanzato. Io che avevo sempre dato retta al mio ex, questa volta non gli credevo.

E invece aveva ragione.

Inizio a notare messaggi allusivi di donne sulla sua pagina Facebook, ma lui minimizzava sempre. Finché una sera passo davanti casa sua e vedo una tizia che sta per entrare. Mi fermo, le chiedo cosa faccia lì, lei ammette di avere una relazione con il mio uomo e che lui le diceva di non potermi lasciare perché io ero una donna “di rappresentanza”.

Cosa succede?

Saliamo in casa insieme, io volevo avere delle spiegazioni. Lui nel panico urla che lei è una squilibrata, che si è inventata tutto. Nel frattempo lei piangeva in un angolino.

Quindi vi lasciate.

Io mi ci rimetto subito. I miei amici, che sapevano, a quel punto sono tutti contro di me. Iniziano a dirmi: non ti riconosciamo più, eri una donna intelligente, cosa ti sta succedendo?

E tu come ti giustificavi?

Piano piano ho iniziato a mentire a tutti, anche a mia sorella. Per esempio a Capodanno ero partita con lui per Chicago ma lo avevo fatto di nascosto perché mi vergognavo di ammetterlo.

Nel frattempo come ti sentivi?

Mi sentivo come anestetizzata, come se quella che vivevo fosse la vita di qualcun altro. Facevo pensieri strani, pensavo di meritare di soffrire per quella che evidentemente era una causa superiore, che dovevo  conquistare l’inconquistabile.

Riuscivi a essere felice ogni tanto?

Finché non ne scoprivo un’altra. A Chicago per dire mi sono accorta che in piena notte lui andava in bagno e usciva da lì alle 4 e mezzo del mattino. Scopro che chattava con la donna che avevo sorpreso sotto casa sua. Lui mi urla che gli sto rovinando il Capodanno, cose così.

Al ritorno?

Dopo poco che eravamo tornati mi chiama un avvocato di Brescia con cui avevo sporadici contatti lavorativi e mi spiattella che il mio fidanzato ha da anni una relazione con la sua compagna. Ancora una volta chiedo spiegazioni al mio fidanzato e lui mi dice che la gente è cattiva, che ci vuole allontanare perché noi siamo i protagonisti di una storia d’amore bellissima. E io gli credo.

Ti manipolava.

Sì, appena mi vedeva intenzionata ad allontanarmi diceva di volere un figlio bello come me, che eravamo la coppia perfetta. Ricominciava con i gesti romantici, che so, io arrivavo stanca la sera a casa e trovavo la vasca da bagno con le candele accese intorno. Quelle che Max definisce «cose da minchione».

Vi lasciavate mai per periodi lunghi?

No, lui mi lasciava per brevissimi periodi, cercava pretesti per litigare e farsi i fatti suoi con qualcuna, poi tornava.

Che pretesti trovava?

Ti faccio un esempio emblematico. Una sera andiamo a cena in un noto ristorante di sushi a Milano e arrivano Matteo Viviani con la sua bellissima moglie e un bimbo nella carrozzina. Si siedono accanto a noi, ci diciamo buonasera. Fine. Io a metà cena vado in bagno, torno, e lui: «La serata finisce qui!». Non capisco. In macchina urla, accelera, mi accusa: «Tu e Viviani vi siete guardati tutta la sera, lui è andato in bagno quando sei andata tu!». Si era inventato questa cosa per lasciarmi qualche giorno e andare con altre.

Ma tu cosa hai pensato?

Pensavo che fosse pazzo d’amore per me.

E quindi tornavi con lui.

Certo, non mi rendevo conto di essere manipolata.

Finché?

Partiamo per Miami con degli amici. Lui ricomincia con  sedute in bagno molto strane. Ha con sé un vecchio Motorola, oltre all’altro telefono, e lo sbircio. Scopro che aveva scritto a venti donne lo stesso messaggio: «Mi manchi, non vedo l’ora di fare l’amore come l’ultima volta». Eravamo insieme da 5 anni, era l’ennesima mortificazione. Lo affronto, lui mi prende la testa e inizia a sbattermela contro l’asse del water: «Stronza, io stavo giocando!». Scappo dalla stanza, mi rifugio in quella degli amici, vado avanti a Xanax per due giorni.

Siete tornati a casa insieme?

Sì. Sull’aereo ero con gli occhi chiusi, sento che mi spalma la crema sul viso. «L’aria condizionata secca la pelle», mi dice premuroso. Poco prima mi stava sbattendo la testa sul water.

A Pavia cosa fai?

Finalmente chiedo aiuto a un medico, gli dico «non so come uscire da questa malattia, devo trovare la forza di allontanarlo dalla mia vita, mi aiuti».

Avevi capito che era un dipendenza?

Avevo capito che non riuscivo a liberarmi di questa ossessione. Nel frattempo raccontavo tutto a Max, al mio migliore amico dal 1995. Max mi diceva «fuggi», ma alla fine mentivo anche a lui.

Come stavi fisicamente?

Ero un cadavere, non riuscivo più a mangiare a dormire.

Il medico cosa ti suggerisce?

Mi gira il contatto della dottoressa Rossi, finisco in un centro per donne maltrattate. Mi ascoltano, mi spiegano la difficoltà del vivere queste situazioni.

Ne esci?

No, ci ricasco. Non rispondo più alla dottoressa Rossi. Finché una sera lui mi prende a calci e come ulteriore sfregio mi versa una bottiglietta d’acqua addosso. Chiamo Max, lui viene subito ma abbiamo paura che andando al pronto soccorso insieme il giorno dopo i giornali scrivano tutto. Ho un orecchio tumefatto e mi gira la testa, chiamiamo un’amica che mi porta in ospedale.

Ma non scappi, giusto?

Giusto. Finché una notte ero a casa con lui e suona il citofono. Era ancora una volta quella donna. Dice che lui e lei non si erano mai lasciati. A quel punto il mio ex le sbatte la testa contro il muro e sai io cosa penso?

Che è pazzo?

No, che siccome la picchiava come picchiava me, la amava come amava me. Avevo un pensiero malato.

Molto malato.

E a quel punto, rendendomi conto della mia follia, torno dalla dottoressa Rossi. Inizio a capire.

E Max che diceva?

Max mi confessa di essersi innamorato di me ma di non essere disposto ad assistere a quello scempio che stavo facendo della mia vita, dice che non mi riconosce più e non vuole soffrire, che non mi avrebbe più risposto.

Gli credi?

No. E invece non mi risponde per tre giorni al telefono, mentre l’altro continuava a cercarmi. Allora la notte della Befana salgo in macchina in pigiama e all’una suono il campanello di casa sua. Gli dico che lo amo.

E lui ti bacia.

No, lui mi fa dormire nella camera degli ospiti. La mattina dopo in cucina mi parla di Inter, di calciomercato. Poi mi fa: «Ma ieri sera eri ubriaca?». E io: no.

Ti bacia?

Questa volta sì. E non ci lasciamo più, dal quel 6 gennaio del 2013, prendendoci cura l’uno dell’altra.

L’altro che ha fatto?

Mi mandava messaggi furibondi dicendo che Max era solo un ciccione tatuato, che non era l’uomo per me, ma non contava più nulla.

Ti sei chiesta come ti sia potuto accadere tutto questo?

Penso alla donna che ero in quel periodo ed è come se stessi pensando a un’altra persona. Non mi riconosco come quella che si fa dire «vestiti bene perché andiamo in quel locale», che sale sulla macchina di lusso, che inventa bugie alla famiglia, che quando le misero il collarino al pronto soccorso raccontò a sua sorella di un’aggressione sulla metro. Se ci ripenso me ne vergogno. Pochi sanno di questo mio dolore.

Che rimpianti hai?

Rimpiango il tempo perso. Quello tolto ai miei genitori che oggi non stanno bene. A quelle volte in cui magari non sono andata in Val Camonica da loro perché temevo che con me lontana da Pavia lui potesse sostituirmi con un’altra.

Hai mai pensato che Max possa essere stato “un sostituto”?

Certo, anche Max se lo è chiesto. E la risposta è che Max non è stato una ruota di scorta, è stato fin da subito l’amore sano, l’amore pulito. E anche la cura.

​​​​​​

© Riproduzione riservata