L’uscita de La città proibita di Gabriele Mainetti segna una sopravvivenza dei film di genere, ma si tratta di un’eccezione in panorama non così vivace come all’estero. Molte questioni politiche e produttive sono cambiate in modo profondo rispetto alla stagione dei Mario Bava e dei Lucio Fulci. Ma i festival potrebbero osare di più
Guardando al panorama cinematografico internazionale dell’ultimo decennio è facile constatare una vera e propria predominanza del cinema di genere che, nella sua varietà, viene sostenuto a tal punto da arrivare a vincere la Palma d’Oro a Cannes e ottenere riconoscimenti prestigiosissimi, fino agli Oscar.
Sia negli Stati Uniti che in Nord Europa e in Francia, si fa così tanto cinema horror, ad esempio, che la critica ha coniato espressioni specifiche per nominare le correnti che si stanno facendo largo: la new french extremity è una corrente di cinema horror gore ed estremo il cui focus è il corpo umano nelle sue modificazioni e trasgressioni, che comincia dai primi anni duemila con Trouble Every Day (2001) di Claire Denis e arriva fino a Titane (2021) di Julia Ducournau passando per alcuni film di Gaspar Noè.
Società di produzione come la A24, Neon, Blumhouse ma anche la Universal, a suo modo, sono il tramite, invece, di quel cinema che conosciamo come horror art house o elevated horror, dove negli ultimi anni spiccano film come Hereditary (2018) di Ari Aster, Get Out (2017) di Jordan Peele, It follows (2014) di David Robert Mitchell – emblematico, quest'ultimo, di un netto cambiamento di paradigma nella narrazione della paura – e infine Nosferatu (2024) di Robert Eggers.
L’ultimo Mainetti
Sono stati citati questi film perché costituiscono parte del cinema di genere contemporaneo più influente. Ma rispetto a quella che è una ricchezza, senz’altro con esiti sia riusciti che meno fortunati, qual è lo stato dell’arte del cinema di genere in Italia? È lecito chiederselo alla luce dell’uscita al cinema di La città proibita di Gabriele Mainetti che segna se non una presenza una sopravvivenza di un certo modo di fare cinema nel nostro paese. Al di là dei meriti del film, in cui, nonostante le ambientazioni conosciutissime, Mainetti è riuscito a costruire un microcosmo a sé stante e quasi favolistico, unendo sapientemente grottesco a splatter, esiste un filone italiano in cui La città proibita può rientrare?
La risposta è – ovviamente – no. Non c’è alcuna corrente a cui il cinema mitologico di Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot, Freaks Out) può far riferimento perché in Italia più o meno dagli anni Novanta in poi il cinema di genere ha smesso di esistere, registrandosi una contrazione radicale nelle produzioni sia grandi che piccole, fino ad arrivare a un crollo quasi totale.
Restando nell’orizzonte temporale degli ultimi dieci/quindici anni, il cinema e le serie tv internazionali registrano un elenco di film di genere che può dirsi sconfinato; dall’Italia vengono in mente solo pochi titoli come The Nest (2018) o A classic horror story (2021) di Roberto De Feo, il cinema dei Manetti Bros e di Gabriele Mainetti, per l’appunto, o un magnifico film di qualche anno fa, Piccolo Corpo (2021) di Laura Samani, che vira in maniera forse meno esplicita e più intimista e viscerale verso il fantastico.
Le
Non delle tendenze, quindi, ma gemme sparute tutte diversissime tra loro: i film di Roberto De Feo sono figli di una narrazione e un gusto tipicamente americani, rimodulando i temi dell’horror anni ‘70 e quello dello zombie movie contemporaneo, da un punto di vista sia tematico che di contenuti; Piccolo Corpo di Laura Samani risulta, invece, memore della lezione del cinema di Alice Rohrwacher, tra i tanti riferimenti; mentre Gabriele Mainetti è riuscito a identificarsi in una determinata estetica e temperamento registico, che rendono il suo cinema autoriale e cinefilo e nello stesso tempo vicino alle nuove generazioni.
Il nostalgismo
Considerando che uno dei problemi di alcuni film di genere italiani è l’eccessivo ancorarsi al nostalgismo, il cinema di Mainetti rappresenta qualcosa di irripetibile. L'aspetto più affascinante di La città proibita è la sua modalità d’esistenza nel solo spazio della finzione narrativa, rispondendo tanto alla necessità di evasione quanto a quella più colta che intende scovarne citazioni e richiami, tra le tarantiniane sequenze di combattimenti e gli inseguimenti concitati. Mainetti fa un film godibile e senza alcun tipo di pretesa ideologica esibita, se non quella, più ironica e sottesa, con cui sbeffeggia le attuali politiche sull’immigrazione.
Il film di Mainetti testimonia la (ancora) viva capacità dei generi di intercettare le istanze politiche e culturali del momento e, contestualmente, di cogliere le ansie e inquietudini della realtà sociale cui fa riferimento e trasfigurarle. Se, però, altrove questa è una tendenza chiave e costante del cinema di genere, nel nostro paese non è così scontato che un film horror o fantastico riesca, comunque, a “dire qualcosa” sul presente; quest’ultima non una condizione sine qua non del cinema ma un suo requisito importante, anche perché non sono rare le occasioni in cui per l’urgenza del contenuto viene sacrificata ogni forma di sperimentazione estetica, linguistica, formale.
Quello che tra gli anni Sessanta e Ottanta era conosciuto come il “Gotico Italiano” – dove figuravano alcuni tra i cineasti che hanno segnato artisti contemporanei di fama internazionale, Mario Bava, Lucio Fulci, Antonio Margheriti, Riccardo Freda, Aristide Massaccesi – ecco, questo Gotico Italiano è chiaro non esiste più. Ed è anche normale che un cinema di quel tipo oggi non si faccia per una serie di questioni politiche e produttive che sono cambiate. Ci si dovrebbe interrogare, pertanto, non sui motivi dell’assenza ma su come far sì che le sparute sopravvivenze sopracitate diventino qualcosa di più consistente.
Si potrebbe insistere, da un punto di vista produttivo, su un corretto equilibrio tra gli investimenti economici che sono stati fatti negli anni e la misura di ciò che si vuole raccontare. In questo modo, sarebbe il valore artistico del prodotto nella sua interezza a prevalere e non le aspettative di pubblico e critica; di quanti sperano, cioè, di poter etichettare come “capolavori” quei pochissimi film di genere che escono in Italia negli anni. Inoltre, a poterne decidere della sopravvivenza, sarebbero (anche), i festival cinematografici, luoghi di elaborazione e ricerca cruciali sui significati e sulle trasformazioni del cinema.
© Riproduzione riservata