Una città sopravvive a una guerra. Per festeggiare l’evento un poeta scrive: «Il fumo della città in fiamme non si è levato nell’aria limpida». Usa, insomma, una negazione.

Invece di dire semplicemente che ci troviamo in un momento di pace, evoca l’immagine di come potrebbe essere la città se la guerra fosse in atto: avvolta dagli incendi. Evoca il fumo che vedremmo nel cielo, quasi ce lo fa respirare. Però poi dice che questo fumo non lo vediamo e non lo respiriamo, e che l’aria è limpida, e che dunque va tutto bene.

Il poeta di cui parlo è Simonide, la città è Tegea, e il frammento sulla città in fiamme è citato da Anne Carson negli scritti in cui parla approfonditamente della negazione. La negazione è un evento verbale che descrive quello che c’è, andando però a nominare quello che non c’è. La negazione dunque immagina. Vede con la mente come sarebbero le cose che però non sono. Descrive come sono le cose senza farci dimenticare quelle che non sono.

Uno strumento potente

La negazione, a mio avviso, è uno strumento potente e sottovalutato, non solo nella comunicazione, ma anche nella vita pratica e mentale. Pigramente pensiamo che la negazione sia il terreno di chi rinuncia, o il terreno dei despoti, di chi proibisce, o ancora di chi si esprime in modo contorto. In realtà la negazione, proprio perché evoca tanto ciò che esiste quanto ciò che non esiste, è il luogo del confronto, del chiarimento e della creatività.

In economia la negazione è assai presente, e gli spunti che derivano dal riflettere di economia e negazione sono secondo me interessanti. La negazione, per esempio, può essere vista come un modo per definire limiti e vincoli. La scarsità, uno dei concetti fondamentali dell'economia, è legata alla negazione: non possiamo avere tutto ciò che desideriamo, quindi dobbiamo fare delle scelte. La negazione ci costringe a riconoscere ciò che non possiamo ottenere e a scegliere con più attenzione ciò che possiamo ottenere.

La teoria delle decisioni si basa su questo atto di selezione. Quando un consumatore sceglie un bene, implicitamente rifiuta tutti gli altri beni possibili, creando un’opportunità di valutazione relativa fra le cose: con tutta evidenza, quel bene è per quel consumatore più importante, quindi vale di più.

Nel mercato, la negazione si manifesta attraverso la competizione. Quando un’azienda afferma la superiorità del proprio prodotto sta dicendo che i prodotti dei concorrenti non hanno le stesse qualità. Questo confronto violento serve alla dinamica di mercato, poiché costringe le imprese a migliorarsi, se vogliono che i consumatori affermino (non neghino) il loro valore.

La pubblicità

La pubblicità utilizza spesso la negazione per creare desiderio e urgenza. Frasi come "non perdere questa occasione" giocano sulla paura della perdita, stimolando potenzialmente la domanda.

Nel campo dell’innovazione, la negazione è una vera e propria forza trainante. Gli innovatori spesso negano la bontà dello status quo. Rifiutano le soluzioni esistenti per cercarne di migliori. Ripudiano, insomma, il presente. La negazione diventa un atto di sfida che stimola la ricerca di nuove opportunità.

È interessante notare come analizzando il concetto di negazione avvertiamo a tratti una sensazione di brutalità e forse proviamo un po’ di disagio, a causa delle parole che dobbiamo utilizzare: la selezione, i vincoli, la competizione, il rifiuto. È interessante altresì notare come questa brutalità sia oggi da noi vissuta con una misura di sospetto. Forse da un punto di vista psicologico attraversiamo un’epoca in cui cerchiamo rassicurazioni e frasi piane, puramente positive, motivazionali. Non ci piacciono tanto le ondeggianti negazioni, i percorsi a zig-zag. Pensiamo: “la stessa cosa si poteva dire in maniera più lineare”.

Vogliamo essere guidati da una mano dolce e ferma. Vogliamo che i genitori ci accompagnino per mano all’esame di maturità ripetendoci all’infinito che “andrà tutto bene”, non certo che “non andrà male”. Non siamo pronti a immaginare la tragedia della città in fiamme, al solo scopo di constatare che invece il cielo è limpido. Preferiamo che qualcuno ci dica, semplicemente, che è limpido.

Non vogliamo che il bene contenga il ricordo del male, non vogliamo che la vita sia costretta a convivere con l’idea di non essere la morte, non vogliamo immaginare un orologio con i segni delle ore ma senza le lancette, simbolo del tempo e contemporaneamente incapace di misurare il tempo (come L’orologio in marmo nero di Cézanne).

Eppure le tortuose convivenze degli opposti sarebbero eccitanti.

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