- La visita degli europarlamentari nel campo di Lipa in Bosnia per incontrare i migranti e i rappresentanti della società civile e delle organizzazioni internazionali come Unhcr e Oim.
- Il campo é popolato in grande parte da giovani uomini come Admin: in prevalenza afghani o pakistani impegnati lungo questo tratto di rotta balcanica a tentare di varcare il confine.
- Tutti compiono un viaggio lungo e pericoloso per venire in un’Europa che non li vuole accogliere. Per cambiare le politiche ci vuole coraggio. Serve sfidare la “narrazione tossica” che ha segnato il dibattito pubblico egemonizzando il campo.
Il sorriso di Admin non lascia scampo a dubbi. La serenità dei ragazzi afghani presenti nel campo di Lipa, realizzato nel distretto di Una Sana, in Bosnia, sembra davvero inarrestabile.
Admin spiega che ha tentato dodici volte, negli ultimi due anni, di oltrepassare la frontiera bosniaca per arrivare in terra croata, che poi vuole, o vorrebbe dire, in terra europea. Lo dice spiegando che la sua meta desiderata é la Spagna.
È forte e protettivo nei confronti di un amico con cui condivide un anfratto del tendone che arriva ad ospitare fino a diciotto «single man», gli cinge per un attimo le spalle e aggiunge che loro, un giorno, ci sperano: ce la faranno.
Il campo é popolato in grande parte da giovani uomini come lui: in prevalenza afghani o pakistani impegnati lungo questo tratto di rotta balcanica a tentare di varcare il confine.
Lo hanno battezzato «the game», il tentativo di raggiungere le città del vecchio continente, e Admin commenta la cosa mostrando le foto delle botte ricevute da un altro di loro, respinto come lui. Si tratta di botte che lasciano solchi profondi.
La visita degli europarlamentari
È la seconda volta in meno di un anno che, come europarlamentari del Pd, veniamo in questi luoghi per monitorare e denunciare.
Lo scorso inverno osservammo una situazione drammatica: ragazzi con i piedi nudi affondati nella neve, racconti di violenze continue operate dalla polizia croata per impedire la presentazione della richiesta d’asilo, un sistema d’accoglienza generalmente inadeguato nonostante gli sforzi enormi e generosi messi in atto da singole organizzazioni umanitarie - la Croce Rossa bosniaca, lpsia - Acli, Caritas e altre -, spesso in grado di tappare alcuni buchi alimentati dalle istituzioni.
Ora il contesto é diverso. Silvia Maraone, colonna portante delle esperienze solidali di matrice italiana, la racconta con un’immagine eloquente «può sembrare la quiete prima della tempesta». E la tempesta può essere quella rappresentata da un nuovo inverno in arrivo.
Non tutto, va detto, in questi mesi é rimasto fermo. Come Maraone afferma qualcosa si é mosso. Qualche passo, tra mille ritardi, è andato nella giusta direzione. I finanziamenti europei sono infine arrivati, ed anche se il loro effettivo impiego dovrà essere adeguatamente rendicontato (e oggi c’è in tal senso molto da chiarire), è stata realizzata grazie ad essi una prima nuova ampia struttura d’accoglienza costituita da piccoli container e cucine, che presto verrà inaugurata, permettendo (forse) di superare, almeno in questo lembo di terra, il campo provvisorio attualmente costituito da tendoni dalle tende sgualcite.
Inoltre, proprio grazie alla determinazione di Ipsia e altri gruppi, sono apparsi spazi per la socialità e la distribuzione di cibo che fino a qualche mese fa sembravano un miraggio.
Tuttavia l’inverno si fa più vicino. E la voglia di mettersi in viaggio è una voglia di tanti che appare davvero irriducibile. Sul fronte delle regole complessive e delle politiche, poi, nulla di realmente adeguato si é mosso o si sta muovendo.
Ciò riguarda tutti i protagonisti in campo: la Bosnia-Erzegovina dove manca una vera politica nazionale sull’immigrazione, la Croazia che prosegue ostinatamente a organizzare i respingimenti e le politiche degli Stati europei.
È l’opinione che condivido con i colleghi della delegazione (oltre al sottoscritto, ci sono Pietro Bartolo, Elisabetta Gualmini, Alessandra Moretti). Un team, il nostro, che in pochi giorni ha incontrato i profughi, le organizzazioni umanitarie, i grandi soggetti (Unhcr, Oim) attivi a livello internazionale, le istituzioni locali e che continuerà, insieme agli altri europarlamentari democratici, come accaduto in questo anno, a porre il tema di scelte generali capaci di rendere più efficaci gli aiuti e, soprattutto, più coraggiose proprio le politiche. Politiche nuove di cui ci sarebbe un gran bisogno per aprire canali d’accesso legali, per permettere l’avvio di “corridoi” o forme di effettivo primo approdo organizzato e trasparente.
In questi anni dovremmo del resto averlo capito tutti: solo l’emersione e il governo graduale e attento del fenomeno migratorio consentirebbero di valutare le singole condizioni di chi lo compone evitando pericolose e inumane ghettizzazioni, le quali certamente, invece, contribuiscono ad arricchire le reti criminali che speculano sulla sofferenza.
Il coraggio di cambiare
Ma per cambiare le politiche ci vuole coraggio. Serve sfidare la “narrazione tossica” che ha segnato il dibattito pubblico egemonizzando il campo.
E questo coraggio, a mio modo di vedere, non si vede non solo dalle parti dei paesi che reclamano nuovi “muri” ma neppure a Bruxelles e Strasburgo, da cui attualmente arrivano proposte parziali e ambigue come quelle costituite dal Patto per l’immigrazione ora in discussione.
Proposte condizionate dalla volontà di leggere l’immigrazione, alla fine, come un danno da ridurre. Una visione che produce costi enormi e che il muro dei Balcani, se non si inverte con chiarezza la rotta, potrebbe perfino aver anticipato.
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