Si doveva arrivare al 25 novembre 2024, a un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, per scoprire che in Italia per alcuni, specie al governo, il patriarcato non esiste. I nodi stanno dunque venendo al pettine, e lo sanno bene le manifestanti che anche quest’anno hanno riempito le piazze. Perché le donne vengono (ancora) maltrattate, violentate e uccise? Si sta facendo abbastanza contro la violenza maschile che la Convenzione di Istanbul definisce un «crimine contro l’umanità» e una lesione dei diritti fondamentali di più della metà della popolazione?

La violenza maschile contro le donne è un problema degli uomini che ricade sulle donne, le quali subiscono violenza proprio in ragione dei traguardi raggiunti, della maggiore libertà economica e individuale, del fatto che hanno conquistato lo spazio per studiare, fare carriera, decidere se e quando avere figli, viaggiare. In sostanza, siamo più colpite perché più libere. E non è un paradosso perché il patriarcato, superato in teoria dal 1975 con il nuovo diritto di famiglia, è la cultura della supremazia maschile sulle donne e incide ancora nella società, sulle relazioni affettive e di potere, sull’educazione.

L’identikit del femminicida

Moltissimo è stato fatto, non siamo all’anno zero. Anche se qualcuno anche nel governo ancora nega, l’identikit del femminicida è ormai noto, così come le dinamiche dell’escalation, grazie anche alla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio. In più del 70 per cento dei casi l’uomo che uccide ha le chiavi di casa: è un marito, un compagno, un fidanzato, un ex. Non si può più pensare che “i bravi ragazzi non lo fanno”, né che siano i migranti a uccidere (lo fanno, ma per lo più le loro partner). E se c’è un’incidenza maggiore degli immigrati per quanto attiene alla violenza sessuale, non è vero per gli altri reati cosiddetti di genere. Quindi Giorgia Meloni e Matteo Salvini non cerchino di trovare capri espiatori, perché la violenza contro le donne non è un tema di sicurezza ma di cultura. Che fare dunque? Le leggi ci sono e il sistema di protezione, centri antiviolenza e case rifugio, funziona, ma avrebbe bisogno di risorse in più. È una rivoluzione culturale, ma bisogna squarciare del tutto il velo dell’ipocrisia.

Per prima cosa sui dati. Dice bene la professoressa Catherine D’Ignazio, «contare i femminicidi è un atto politico». In una ridda di dati ufficiali e ufficiosi, aspettiamo ancora l’attuazione della legge sulle statistiche in materia di violenza, la 53/22, che approvammo all’unanimità e su cui si impegnò il governo Meloni. A che servono dati ufficiali, anche e soprattutto sui reati spia? A conoscere, ma anche calcolare il rischio e a fermare l’escalation prima che sia troppo tardi.

Poi servono subito tre leggi, non si può più aspettare e agire in modo bipartisan è un imperativo categorico. Va istituito il reato di molestie sessuali (con le aggravanti dei luoghi di lavoro e di studio). È al Senato (tra i vari ddl, anche uno del Pd a mia prima firma). Avevamo l’impegno a portare il testo in Aula per il 25, ma c’è resistenza. Lo stesso alla Camera per la legge che considera stupro ogni atto sessuale carpito senza consenso. Infine una legge sulla promozione dell’educazione all’affettività.

È arrivato poi il momento di interrogarsi sulla possibilità di introdurre nel codice penale il reato di femminicidio (oggi è un aggravante dell’omicidio). Contribuirebbe al necessario cambiamento culturale nominare il femminicidio dentro al Codice penale: perché uccidere una donna in quanto donna è un reato di matrice patriarcale o maschilista e ha dunque una sua specificità.

La formazione e la specializzazione degli operatori, a partire dalle filiere della giustizia, della sanità, della scuola, della comunicazione devono diventare obbligatorie, per evitare la vittimizzazione secondaria, soprattutto nei tribunali ma non solo. Le docenti devono essere le esperte della rete antiviolenza, in cui le donne vengono aiutate da altre donne nei loro percorsi di fuoriuscita, proprio a partire dallo scardinamento degli stereotipi e dei pregiudizi di genere.

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