Nel suo libro: “Counting Feminicide: Data Feminism in Action” la professoressa del Mit fa luce sulle “attiviste femministe dei dati”. «Hanno una funzione riparativa e trasformativa: raccolgono i dati per costruire un mondo in cui il femminicidio non esisterà più e potremo smettere di contare»
«Contare non è mai un gesto neutrale, è un atto profondamente politico», scrive la professoressa del Massachusetts Institute of Technology, Catherine D’Ignazio, nel suo libro Counting Feminicide: Data Feminism in Action ed è per questo che chiedersi da dove vengono i dati sui femminicidi è parte del percorso per l’eliminazione della violenza di genere.
In Italia non esiste un database istituzionale che monitori pubblicamente i femminicidi compiuti nel paese. Il ministero dell’Interno pubblica un report settimanale con le donne uccise «in ambito familiare e affettivo», ma non usa la parola femminicidio a differenza dell’Istat che pubblica ogni anno un report in proposito.
Dal momento che in Italia non esiste una definizione legislativa di femminicidio, l’Istat cerca – ma riconosce di non disporre ancora di tutti i dati necessari – di seguire i 53 parametri stabiliti dall’Onu nel 2022 che permettono di capire, a livello globale, quando una donna è stata uccisa in quanto donna.
A oggi, tuttavia, il registro pubblico che monitora i femminicidi in Italia rendendo disponibili a tutti informazioni come l’età della vittima, la provenienza, la presenza di figli o di disabilità e altre, è il database dell’Osservatorio Femminicidi Lesbicidi Transcidi del movimento femminista Non Una Di Meno, un registro non istituzionale nato dal basso.
Non si tratta di un fatto inconsueto: Catherine D’Ignazio nel suo libro fa luce sull’attività delle «attiviste femministe dei dati» che specialmente in Sud America, ma anche in Canada e negli Stati Uniti, raccolgono i dati sui femminicidi dando origine a pratiche di data science dal profondo valore etico e politico. «Abbiamo intervistato gruppi che sono attivi da decenni, fin dagli anni Settanta quando ritagliavano a mano gli articoli di giornale», dice, «poi dal 2015, con la nascita di Ni una menos, una maggiore alfabetizzazione sui dati e disponibilità di strumenti tecnologici, sono aumentati, c’è stato un passaparola. Ma è una pratica femminista di lungo corso».
Nel libro parla di “dati mancanti” da un lato, e di “contro-dati” dall’altro, cosa intende?
I dati mancanti sono dati di importanza sociale e politica per la popolazione che le istituzioni trascurano nonostante la richiesta che vengano raccolti e resi disponibili. Altre volte i dati ci sono ma sono di bassa qualità o parziali o mostrano segni di manipolazione a scopi politici. Questa è una delle principali motivazioni per cui le attiviste avviano i loro progetti di conteggio dei femminicidi. I contro-dati sono quindi dati prodotti da individui o gruppi della società civile indipendenti dalle istituzioni. Le attiviste non vedono questo lavoro come una loro responsabilità, ma producono questi contro-dati per sottolineare il problema e chiedere alle istituzioni di occuparsene, di fornire un quadro completo di ciò che sta accedendo. Sono dati che sfidano i sistemi di potere e spesso differiscono da quelli istituzionali. I dati sui femminicidi in Messico che María Salguero raccoglie dal 2016, ad esempio, sono regolarmente più del doppio di quelli pubblicati dal governo federale messicano.
Perché i dati sui femminicidi sono spesso dati mancanti?
Ci sono diversi fattori. Alcuni sono legati alla mancanza di una legislazione: può essere che il concetto di femminicidio non sia stato codificato, come succede anche negli Stati Uniti e Canada, o sia stato codificato in modo parziale. Oppure può esserci un problema di mancata applicazione della legge, come succede in molti paesi latinoamericani dove esiste una formulazione legislativa di femminicidio, ma non viene implementata un’adeguata raccolta di informazioni e un’adeguata classificazione dei decessi. Può essere che le forze dell’ordine non siano formate sul significato di “femminicidio”, che i pregiudizi condizionino il modo in cui i casi vengono perseguiti e documentati, che ci siano errori o manomissioni. Anche i media hanno un ruolo perché riportano spesso le uccisioni in modo sensazionalistico senza inquadrarle in un fenomeno sistemico e dando più peso a certi casi rispetto che ad altri. Infine, ci sono casi in cui le famiglie non vogliono denunciare, magari perché potrebbero legittimamente temere rappresaglie, specie in paesi dove la violenza è legata al narcotraffico.
Le attiviste femministe, da un lato, lavorano con i dati, dall’altro, però, ne prendono in qualche modo le distanze.
Riconoscono che c’è del potere nell’avere dei numeri autorevoli sull’argomento. Si chiedono come usare questi dati in modo creativo per affrontare la disuguaglianza di genere con ottica intersezionale, quindi tenendo conto di come si interseca con la razza, con la giustizia economica e così via. Cercano di usarli in modo strategico per attirare l’attenzione sul problema, per avviare delle conversazioni con le istituzioni, per essere chiamate al tavolo quando si discutono le politiche sulla violenza contro le donne. Eppure ci è stato detto più volte, «no somos numeros», «non siamo numeri». Le attiviste sanno che c’è il rischio che la vita delle donne scompaia tra conteggi e dati. È una tensione che non si può risolvere se non tenendo insieme queste due parti. Da un lato sottolineano il fenomeno strutturale con i conteggi, le percentuali e i grafici, dall’altro riportano l’attenzione all’umanità e alla comunità della persona che ci è stata portata via.
Nel libro parla di un approccio ai dati, da parte delle attiviste, di tipo riparativo/trasformativo. In cosa consiste?
Sulla base delle interviste svolte il libro cerca di teorizzare un approccio di data science con funzione riparativa e trasformativa. La funzione riparativa riguarda il breve termine e pone i dati al servizio del ripristino dei diritti e della dignità delle persone coinvolte, per limitare il danno subito. Negli Stati Uniti il Sovereign Bodies Institute usa letteralmente i propri dati per aiutare le famiglie colpite, comprare loro il cibo e sostenerle durante il processo. La parte trasformativa, invece, riguarda il lungo termine: raccolgono i dati per costruire un mondo in cui il femminicidio non esisterà più e potremo smettere di contare.
Che differenze ha osservato tra le attiviste dei dati e i tradizionali data scientist?
Ci sono molti punti di contatto: le attiviste femministe sono molto rigorose, cercano la verità e dedicano molto tempo a verificare i dettagli, proprio come i data scientist. D’altra parte la pratica di data science tradizionale ama pensare di essere “neutrale” e oggettiva, mentre l’attivismo femminista dei dati non lo è perché mette la scienza dei dati al servizio delle donne, della dignità delle donne e della parità di genere, per creare un impatto politico. Mi ha colpito il modo in cui insistono nell’umanizzare i loro dati e questa non è certo una cosa che viene insegnata nei corsi di analisi dei dati. Alcune vedono i loro database come dei memoriali, ne parlano come spazi sacri di memoria e resistenza. Sostengono una sorta di giustizia della memoria perché sanno che queste donne rischiano di essere dimenticate.
Nel libro, infatti, parla di un lavoro dal forte carico emotivo.
Cerco sempre di ricordare che i dati non appaiono magicamente, le attiviste si documentano su ogni caso di violenza, copiano e incollano uno a uno i dettagli brutali nei loro fogli di calcolo. Spesso cercano di comparare più fonti, quindi si trovano a dover leggere molti articoli per ogni caso. È un lavoro straziante. Alcuni progetti si interrompono proprio perché è psicologicamente estenuante essere circondate dalla violenza tutto il tempo. Altri gruppi trovano strategie di self-care e strategie di cura collettiva. Ma è interessante notare come anche questo aspetto sia visto come parte integrante del loro lavoro. Un capitolo del libro è dedicato a un case study per co-progettare con le attiviste una tecnologia di machine learning a supporto del loro lavoro. Abbiamo cercato di progettare un sistema per ridurre il loro carico emotivo, ma si sono opposte alla completa automazione dell’inserimento dei dati parlando proprio dell’importanza della componente umana di testimonianza e cura delle persone.
In un’epoca di iper produzione e commercializzazione dei dati, cosa possono imparare i data scientist da queste pratiche femministe?
Nel mondo dell’analisi dei dati ci si chiede spesso come possiamo mettere la pratica di data science al servizio del benessere e della giustizia sociale. Penso che si possa trovare una risposta osservando il lavoro delle persone che lo stanno effettivamente facendo sul campo. Il loro approccio riparativo/trasformativo può essere utile in altri ambiti come l’insicurezza abitativa, la giustizia ambientale, l’inquinamento ambientale. Ma io spero che questo libro possa parlare al mondo della scienza dei dati nel suo complesso ricordando che ci sono metodi più etici di lavorare con i dati, con maggiore impatto politico, e più umani.
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