- Nei diari di Ettore Bernabei, uno dei democristiani più potenti, alla guida della Rai prima e del sistema degli appalti poi, l’invettiva contro «la reazione capitalista e i suoi luridi portafogli».
- La testimonianza non oggettiva e distaccata di un fervente cattolico, soprannumerario dell’Opus Dei, insegna molto sulla storia d'Italia e sulle radici della profonda crisi della politica di oggi.
- Nella composita Dc in cui convivevano l'ispirato Giorgio La Pira e il cinico Giulio Andreotti c'era più sensibilità al rapporto con gli umili e alla critica del capitalismo di quanta non se ne veda oggi nel centrosinistra.
Leggete questa frase: «La reazione capitalista tenta di riconquistare il vessillo della Santa Crociata nascondendo i suoi luridi portafogli dietro le barriere spirituali di un cattolicesimo irretito nella difesa astratta dei principi e sostanzialmente avulso dagli uomini e in particolare dai poveri». E leggete quest’altra frase: «Ora si discute intorno alla congiuntura, ma è difficile che chi ha trovato un briciolo di benessere dopo secoli di inedia si persuada a tornare indietro in base a qualche teorema liberista diffuso dal governatore della Banca d’Italia». Potrà sembrare sorprendente che le abbia scritte nel suo diario privato, a cavallo tra 1963 e 1964, Ettore Bernabei (1921-2016), all’epoca direttore generale della Rai. Ma proprio per questo vale la pena di parlarne.
L’uomo di Fanfani
Giornalista fiorentino precoce e assai dotato, Bernabei è stato per decenni uno degli uomini più potenti d’Italia. Ombra discreta di Amintore Fanfani (il leader democristiano che insieme ad Aldo Moro ha segnato la storia della Prima repubblica tra Alcide De Gasperi e il declino) è stato a 35 anni direttore del Popolo, l’organo ufficiale della Dc, e a 40 numero uno della Rai che allora contava mille volte più di adesso, essendo l’unico mezzo di comunicazione di massa.
Tocca a lui, nell’agosto del 1964, decidere quanti minuti dei funerali di Palmiro Togliatti sia giusto far vedere agli italiani. «Si trattava di dare un doveroso rilievo alla morte di un personaggio che tanta parte aveva avuto nella vita italiana degli ultimi vent’anni senza disturbare gli otto-dieci milioni di suoi ammiratori e senza disturbare i diciotto-venti milioni di suoi avversari».
Decide per una sintesi registrata di 25 minuti dopo il telegiornale delle 23, e lo considera un gesto di attenzione per i comunisti, che di lì a poco potrebbero essere decisivi per l’elezione di Fanfani alla presidenza della Repubblica. Bernabei non è un funzionario, è un militante politico appassionato, anche se non comprare mai in pubblico ed è sconosciuto alle masse.
Per conto di Fanfani tratta direttamente con Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, due leader popolarissimi del partito orfano di Togliatti, i voti comunisti per il Quirinale. Rimane al vertice della Rai per 13 anni, fino al 1974, e i suoi diari rivelano un ruolo decisivo di snodo del potere. Svolge le funzioni di ambasciatore di Fanfani presso il governo degli Stati Uniti, ma è anche spesso a colloquio con l’ambasciatore sovietico a Roma Nikita Ryzhov.
Propizia lo storico incontro tra il papa Paolo VI e il ministro degli esteri sovietico Andrej Gromyko. Durante il rapimento di Aldo Moro si svolgono a casa sua gli incontri segreti tra Fanfani e il leader socialista Bettino Craxi per soppesare le possibilità di trattativa con le Brigate rosse.
Dopo il 1974 Bernabei cambierà vita professionale, diventando ancora più potente alla guida dell’Italstat, società statale che finisce per diventare un ministero dei Lavori pubblici ombra, architrave del mercato degli appalti, un sistema perverso ma a suo modo efficiente che sarà distrutto dall’inchiesta Mani pulite. Da allora è una giungla: nessuno è riuscito a inventare qualcosa in grado di sostituire il sistema Bernabei.
Le due ossessioni
I suoi diari (Piero Meucci, Il primato della politica, Marsilio) raccontano però la politica. Chi li scrive è un cattolico fervente, soprannumerario dell’Opus Dei, ossessionato dai due nemici che per lui minacciano l’Italia, gli ebrei e i massoni. La sua cronaca quotidiana copre in modo dettagliato il quarto di secolo dalla caduta di De Gasperi (1954) alla morte di Moro e di Paolo VI (1978) e, pur non essendo una testimonianza oggettiva e distaccata, punteggiata com’è da interpretazioni stravaganti, insegna molto sulla storia politica dell’Italia e, quello che più ci interessa, sulle radici della attuale crisi profonda.
Una classe politica sempre più ignorante e improvvisata non è in grado oggi di fare i conti con la storia che ne determina in larga parte difficoltà e incertezze. Torniamo dunque alle due frasi da cui siamo partiti. Bernabei non ha esitazioni, secondo lui il cattolico deve fare politica dalla parte dei poveri e degli sfruttati, contro i padroni. Usa proprio queste parole.
Ma la Dc è un’altra cosa, la Dc è, come si diceva un tempo, “interclassista”. Sta con gli operai e con i padroni perché solo in questa sintesi il partito cattolico raccoglie l’ampio consenso elettorale (stabilmente attorno al 40 per cento) che gli consente di governare per 45 anni. L’interclassismo, sottintende Bernabei, è contro natura, imposto dalla contingenza storica. Ma oggi vediamo che è durato così a lungo da sedimentare nel sistema politico italiano l’idea che sia una pratica virtuosa, una sintesi “alta”, l’unica declinazione possibile della cosiddetta cultura di governo. Una deriva perversa di cui l’attuale partito democratico è il malinconico risultato.
Per molti anni la vita della Dc è accompagnata dall’idea strisciante della scissione. Sintetizza Meucci, curatore dei diari: «La questione che [Bernabei] mette a fuoco è che il partito dei cattolici, per la sua forza elettorale e il suo carattere popolare, deve fare i conti con il destino di rappresentare dentro di sé due anime che si fronteggiano e si combattono quotidianamente. Una sinistra cristiano-sociale e una liberale, che in quegli anni prende la forma di un conservatorismo retrivo e reazionario. La soluzione potrebbe essere una salutare scissione».
È una guerra politica senza esclusione di colpi. Nel 1959, quando contro un Fanfani troppo di sinistra si forma il correntone “doroteo”, che diventerà la definizione proverbiale di una politica per il potere e senza principi, Bernabei scolpisce un’analisi profetica: il doroteismo «è una vera e propria categoria della politica italiana ed europea, è una tenace conservazione mascherata di progressivismo da chi in buona fede non ha capito cos’è la dittatura della borghesia e crede di costruire una società cristiana credendo in Dio a titolo personale e facendo riaffermazioni verbali di antifascismo e di socialità, o in mala fede si è asservito al padronato e gli offre la copertura del cristianesimo sociale».
Controllo americano
Ma le due anime del cattolicesimo non possono separarsi. In primo luogo perché la chiesa non lo vuole. Una scissione la costringerebbe a scegliere se appoggiare l’ala cristiano-sociale di Fanfani o quella filo-padronale dei dorotei. In secondo luogo perché la Dc è l’architrave del controllo americano su un paese di confine con il blocco sovietico, in cui la forza del Pci, non abilitato a governare a causa dei suoi legami con Mosca, impedisce un’alternanza al governo tra progressisti e conservatori come avviene in tutti gli altri paesi europei. Così la Balena bianca (come la chiamò Giampaolo Pansa) è condannata a governare unita, alleata con i liberali di Giovanni Malagodi, i repubblicani di Ugo La Malfa e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat, poi dal 1963 in avanti anche con i socialisti di Pietro Nenni.
Gli alleati minori sono considerati da Bernabei i veri «servi dei padroni»: «Accusano i cattolici di cedimenti al comunismo temendo proprio l’alleanza fra chiesa e comunismo come il colpo mortale al capitalismo e ai privilegi della borghesia». L’alternanza tra destra e sinistra avviene all’interno della Dc ed è sempre risultato di dure battaglie.
C’è la spinta a sinistra di Fanfani dopo il congresso di Napoli del 1954 che segna la fine del degasperismo, c’è il tentativo di svolta autoritaria (definita senza tanti complimenti «avventura totalitaria clerico-fascista») di Fernando Tambroni, ex pupillo di Fanfani, c’è la nuova apertura a sinistra di Fanfani e Moro, la svolta di destra dei primi anni ’70 capitanata da Giulio Andreotti che però subito dopo sarà l’uomo chiave dell’ingresso dei comunisti nella maggioranza.
Tutto avviene dentro la Dc che in realtà federa due partiti molto distanti tra loro. Si manovra, si naviga, si combatte. Bernabei annota le parole del leader doroteo Mariano Rumor (nel tempo segretario della Dc e presidente del Consiglio): «Vedete, ve lo dicevamo noi quando avete cominciato ad attaccare i liberali (cioè i padroni) e a rompere la solidarietà quadripartita, i preti non ci permetteranno di andare a sinistra perciò se proprio non volete andare alla destra smaccata, accontentatevi di questa destra mimetizzata che è il centro». Rumor è sprezzante con il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, grande amico di Bernabei e anche lui legatissimo a Fanfani, definendolo «un ridicolo visionario perché difende sempre solo gli operai».
Alla vigilia delle elezioni politiche del 1958 il diarista annota che «sono elezioni decisive perché segnano l’antinomia evidente tra il padronato e la Dc». Fanfani va avanti sulla sua strada riformista, il suo fidato consigliere gongola: «I padroni e la massoneria hanno capito che con questo governo è finita l’era liberale e perciò il loro dominio della situazione è gravemente minacciato». Lo scontro è duro, «il padronato punta tutte le carte sull’opposizione interna alla Dc, stipendiando deputati e senatori».
Il pendolo interno alla Dc si muove secondo la sua insondabile armonia. Fanfani sale e scende, come sempre nella sua vita. Nel 1959 perde presidenza del Consiglio e segreteria del partito, e Bernabei ne registra la consueta ma rapida crisi depressiva: «Fanfani in stato di prostrazione pessimistica molto grave», appare convinto «che in Italia non sia possibile far politica per chi onestamente non vuol piegarsi ai ricchi e servirli». I partiti cristiani sono un equivoco, dice, e le politiche cristiane sono espedienti che la chiesa usa per guadagnare tempo. In tono più apocalittico, sostiene che «per un cristiano non c’è possibilità di svolgere una politica a favore degli umili».
Anticapitalismo
La Dc occupa il centro tenendo alla sua destra i partitini centristi che Bernabei considera al servizio del padronato e alla sua sinistra i comunisti che, nella sua visione, lavorano per Mosca e quindi hanno, anche rispetto alle grandi questioni sociali, posizioni opportunistiche. Meucci sintetizza così il pensiero di Bernabei: «I socialisti al servizio della borghesia capitalistica e i comunisti paralizzati dal loro tatticismo, nello sforzo di apparire moderati e democratici, hanno addormentato le masse operaie».
Sullo sfondo, l’elezione di Saragat alla presidenza della Repubblica (29 dicembre 1964). Bernabei soffre: «Come è potuto avvenire che un laico avversario dei cattolici e rappresentante di grandi interessi finanziari internazionali è assurto alla prima carica dello stato? Perché questo comportamento autolesionista della Dc?».
Intanto Fanfani, sconfitto nella corsa al Quirinale che non vincerà mai, prepara l’ennesima riscossa. Ancora una volta in nome dell’anticapitalismo. Annota il suo attento esegeta: «Sente che alla fine una gran parte degli italiani potrebbe trovare in lui un restauratore e un propulsore di nuove forme di vita associativa che non siano quelle ormai logore della dittatura borghese capitalista mascherata da democrazia parlamentaristica. Lo anima la vecchia passione integrale cattolica, anche se accompagnata da una durissima polemica con la gerarchia che in questi momenti si è dimostrata inetta e rinunciataria».
Nel gioco di specchi della politica democristiana e italiana nulla è come appare e in certi momenti anche Bernabei sembra che si perda. Nel 1971 va a pranzo a casa sua l’ambasciatore americano Graham Martin e il padrone di casa trae dal colloquio uno scenario un po’ onirico ma con tracce di autenticità: «L’ambasciatore tiene a far sapere che il suo governo (lui è molto amico di Nixon) ha deciso di puntare in Italia solo sulla Dc correggendo la precedente politica dell’amministrazione democratica, che puntava anche e soprattutto sul cavallo socialista.
Per attuare questa politica lui dice che ha carta bianca, ma che prima di muoversi nell’aiutare la Dc vuol vedere se saprà essere unita nella campagna presidenziale. Mi chiede cosa può fare per raggiungere meglio questi scopi, lasciando sottintendere che lui e il suo governo vedrebbero non ostilmente una candidatura Fanfani. Rispondo che un discorso del genere dovrebbe esser fatto a una decina di notabili democristiani, ad alcuni segretari di partito ed esponenti industriali tipo Agnelli, Pirelli, Cefis. Tace sugli ultimi due. Per il primo tiene a dire che ha rotto i rapporti perché troppo implicato nei finanziamenti di movimenti di sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Potere operaio).
Ma che malgrado ciò farà sapere anche ad Agnelli le direttive sulle quali si muove la politica della sua ambasciata». Agnelli finanzia Lotta continua e Potere operaio? Difficile da credersi, ma quello che conta è la visione sottostante, quella di un cattolico che si sente accerchiato da forze padronali (e quindi, in automatico, anche massoniche ed ebraiche) che puntano a ridimensionare l’anima popolare del partito cattolico.
Il tema è ricorrente da 150 anni. I cattolici e i socialisti fondano insieme nell’Ottocento le società di mutuo soccorso che sono l’embrione del Partito socialista e del sindacato. La chiesa tende, almeno in teoria, a schierarsi con i poveri contro i ricchi, se non altro perché è l’unica strada per tenere viva un’identità culturale originale nella moderna società industriale. C’è un filo sotterraneo che unisce, dall’inizio del Novecento all’inizio del terzo millennio, l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII alla Fratelli tutti di Jorge Mario Bergoglio. Poi ci sono le curve della storia. Con il fascismo la chiesa si mette al servizio del regime e della «dittatura borghese», ma nella nuova Dc che nasce nella lotta contro il nazi-fascismo l’anima sociale emerge fortissima, anche nell’era di De Gasperi che sosteneva, ricorda Bernabei, che «per la Dc è meglio perdere due voti a destra per guadagnarne uno a sinistra».
Il duo Montini-Moro
Impressionanti le righe dedicate nel 1978 al bilancio storico di due figure decisive come Aldo Moro (ucciso dalle Brigate rosse il 9 maggio) e Giovanni Battista Montini (Paolo VI), morto il 6 agosto. Secondo Bernabei avevano costituito «il più saldo anche se beato sodalizio spirituale e politico mai esistito tra chiesa e politica italiana».
Papa Montini ha infatti determinato, secondo Bernabei, il «più complesso e organico esperimento di (Jacques) Maritain, secondo il quale i cattolici devono mantenersi diversi e distinti sul piano dottrinale dai movimenti di ispirazione marxista, ma devono essere disposti a collaborazioni sul piano pragmatico anche con i partiti comunisti allo scopo di impedire che le forze borghesi e capitalistiche, dividendo le masse comuniste e cattoliche, possano attuare regimi a sfondo più o meno dichiaratamente fascista». Montini, prima assistente ecclesiastico della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana, grande scuola di formazione religiosa della classe dirigente alla guida del paese dal dopoguerra in poi), in seguito segretario di stato, infine pontefice, determina la prevalenza nella Dc della «ala pluralistica (dorotei e morotei) rinunciataria verso qualsiasi proposta contraria di politica sociale cristiana, disposta a lasciar prevalere tutte le ideologie e i possibilismi per fare perdonare i passati errori “esclusivistici” e “trionfalistici” della chiesa». Di conseguenza, spiega Meucci, lo scudo crociato volta le spalle alla linea autonomista propugnata da padre Agostino Gemelli, fondatore dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, «che con Fanfani, La Pira e (Giuseppe) Dossetti propugnava una proposta sociale cristiana in alternativa a quella illuministica borghese ma anche a quella marxista». Tanto che Bernabei ripone grandi speranze nel pontificato di Albino Luciani (Giovanni Paolo I), che però durerà solo 33 giorni. Definisce la sua elezione «un soffio dello Spirito Santo». Commenta Meucci: «L’enfasi dell’espressione usata dal diarista non è casuale, esprime l’attesa per una dottrina sociale capace di rilanciare l’idealità del mondo cattolico e dei suoi valori. Una visione del mondo capace di competere con il neoliberismo e l’utopia marxista».
Mentre inizia, con l’uccisione di Moro, il disfacimento della Dc, Bernabei rimpiange l’incapacità di proporre un vero modello cattolico di società e la scelta (che attribuisce al duo Montini-Moro) di presidiare il centro politico con una specie di modello intermedio tra liberismo capitalista e sinistra di ispirazione marxista.
Nei decenni successivi si crea il paradosso imprevedibile che domina l’Italia di oggi: la Dc esplode e le sue schegge “pluralistiche” finiscono prevedibilmente in tutte le aree politiche, ma nel frattempo liberismo e comunismo si fondono in quella specie di pensiero unico da cui nasce, per esplicita rivendicazione, il Pd. Così oggi, di fronte alla domanda di politica determinata dalla profonda crisi del capitalismo, ci troviamo a constatare nei diari di Bernabei che in quella composita Dc in cui convivevano l’ispirato La Pira e il cinico Giulio Andreotti c’era più sensibilità al tema del rapporto con gli umili e della critica del capitalismo di quanto non si veda nelle formazioni di centrosinistra di questi tempi.
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