Nonostante il putiferio politico che aveva sollevato ventilando l’invio di truppe in Ucraina, Emmanuel Macron mostra di aver avuto ragione nel dire che «già più volte le linee rosse sono state spostate» e che ciò che prima appariva come inconcepibile è entrato poi nel dibattito.

L’idea che gli aiuti Nato possano essere utilizzati da Kiev per attaccare la Russia appariva indigesta al cancelliere tedesco fino a poche settimane fa. Questo giovedì invece il tema è approdato sul tavolo dei ministri degli Esteri dell’Alleanza atlantica, riuniti pure il giorno seguente a Praga.

La possibilità di usare armi Nato in terra russa – definita dal segretario di stato vaticano Pietro Parolin come una «prospettiva inquietante» che darebbe vita a una «escalation incontrollabile» – è un ulteriore segnale dell’esasperazione del clima bellico da parte di alcuni leader – primi fra tutti Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen – che fanno della minaccia esterna un argomento elettorale per giugno, e delle spese per l’industria militare una priorità di agenda per il dopo.

I posizionamenti

«È arrivato il momento di ridiscutere alcune restrizioni sull’uso delle armi occidentali da parte di Kiev»: così Jens Stoltenberg, il segretario generale Nato, ha segnalato questo giovedì il cambio di paradigma, mentre si intensificavano le indiscrezioni su un venturo patto Usa-Ucraina che Biden e Zelensky potrebbero siglare al G7 in Italia.

«Ribadisco qui a Praga la posizione dell’Italia – ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani – ovvero che non invieremo alcun militare a combattere contro i russi in territorio ucraino e che le armi italiane non potranno essere utilizzate per colpire il territorio russo».

Ma lo scenario trova anche accaniti sostenitori: in prima linea, ci sono i paesi baltici, il governo danese, c’è l’Eliseo che ha portato nel dibattito anche Berlino, c’è Londra. Antony Blinken, il segretario di stato Usa, pure si è detto possibilista.

La presidente di guerra

«Sicurezza! Abbiamo dato un supporto senza precedenti all’Ucraina, intensificato la produzione industriale militare, rafforzato la sicurezza alle frontiere esterne Ue e la cooperazione con la Nato». Con queste parole von der Leyen descrive il suo primo mandato.

Ma sono soprattutto le immagini e le promesse con le quali cerca sostegno per un bis, a definirne la strategia: si candida da presidente di guerra. In un video elettorale caratterizzato da immagini cupe, musica incalzante e una dimensione patemica volutamente inquietante, il Ppe e il suo volto di punta ci presentano un’Europa sotto attacco, da dentro e da fuori.

Prima c’è la costruzione narrativa dei nemici e delle minacce: «Alle porte dell’Europa ancora impazza la guerra della Russia contro l’Ucraina. I nostri nemici non si fermeranno davanti a nulla. Lo scopo è di dividere le nostre società dall’interno e di attaccare i nostri confini dall’esterno». Poi c’è l’invito a scegliere «un’Europa con il coraggio di agire», e qui compare von der Leyen in giubbino antiproiettile.

«Nel mio secondo mandato, voglio potenziare (“turbo-charge”) la nostra capacità industriale di difesa. Avviare progetti di difesa comune, come l’esplorazione di uno scudo di difesa aerea europeo, ed essere meglio preparati contro tutte le minacce».

L’economia della paura

Mentre il riferimento alle frontiere esterne è una spia di quanto i Popolari abbiano già introiettato gli argomenti delle destre estreme con le quali cooperano, il tema dell’industria militare e dello scudo strizza l’occhio ai capi di governo dei quali von der Leyen avrà bisogno per essere riconfermata, a cominciare da Macron.

Il presidente francese è stato tra i primi a dichiarare, già mesi fa, che «siamo in un’economia di guerra», e poi a introdurre nel dibattito il tema dell’invio di truppe in Ucraina. Sia l’Eliseo che il commissario al Mercato interno, l’ex manager francese Thierry Breton, hanno strattonato von der Leyen – pure mettendole alle calcagna ipotesi alternative come quella di Mario Draghi – pur di ottenere il più possibile in termini di promesse alla grande industria militare.

Pure lo spitzenkandidat liberale Sandro Gozi, all’ultimo dibattito, ha incalzato von der Leyen: «Siamo delusi. Per la difesa c’è solo un miliardo, ce ne servono cento: è a favore degli eurobond per la difesa?». In realtà la presidente ha inaugurato la sua campagna per il bis – alla vigilia del congresso Ppe nel quale è stata nominata – consegnando in dote «un segnale forte» ovvero un pacchetto per l’industria della difesa.

La polarizzazione

Sul tema della spesa a favore dei colossi militari c’è un allineamento che – oltre a destre e liberali – comprende i socialisti; tra i più spinti, la premier danese Mette Frederiksen, pronta a sacrificare il welfare per le armi.

Fuori da questo ampio consenso resta chi usa in modo specularmente opposto la pace come leva di consenso. Tra questi, anzitutto Viktor Orbán, il cavallo di Troia di Putin in Ue, che questo giovedì ha ribadito: «Alle europee si sceglie tra guerra e pace».

Già la sua campagna per le elezioni ungheresi di aprile 2022 si era articolata su questo perno. Sul «pacifismo» fanno leva anche Giuseppe Conte e la rossobruna tedesca Sahra Wagenknecht.

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