Il governo di minoranza cade sotto i colpi di Le Pen e Fronte popolare. Mélenchon punta tutto contro l’Eliseo ma i socialisti cercano un accordo
Fino all’ultimo Michel Barnier ha provato a evocare conseguenze «drammatiche», ha invitato ciascun parlamentare alla «responsabilità». Ma nessuno ha potuto salvare il primo ministro con meno legittimità democratica dei tempi recenti di Francia – i suoi repubblicani hanno 47 seggi su 577 – dal fuoco di fila dei voti arrivati per buttare giù il suo governo.
Sulla «sécu» – sul progetto di legge di finanziamento della sicurezza sociale per il quale Barnier ha scommesso sull’articolo 49.3 sperando di scavalcare l’aula e sul quale si è ritrovato l’aula contro – si è consumata questo mercoledì sera la fine dell’esecutivo. Non c’è stato neppure bisogno di votare tutte e due le mozioni di sfiducia perché è bastata la prima: il Rassemblement National ha fatto convergere i suoi voti su quella sostenuta dall’intero arco del Fronte popolare (France insoumise, socialisti, ecologisti e comunisti), che è passata con 331 voti a favore (su 288 necessari).
La dinamica della caduta
Nessuno di questi è d’accordo – l’estrema destra e il Fronte sono opposti, così come al suo interno il Fronte stesso rischia sfaldature, e pure in queste ore il segretario socialista non ha fatto che ribadirlo – ma i piani di tutti convergono su un punto: sfiduciare questo governo. Marine Le Pen, che ha beneficiato di questa fase perché è stata accreditata dal primo ministro come interlocutrice, punta ora all’Eliseo. Il Fronte popolare, che è diventato dopo le ultime legislative la prima forza dell’Assemblea nazionale, si è ritrovato invece del tutto estromesso non solo dall’assunzione di potere, ma pure da quella interlocuzione della quale invece l’estrema destra è stata beneficiaria.
E che dire di Emmanuel Macron, in tutto questo? Mentre Barnier andava a prendersi gli strali dell’aula, il presidente della Repubblica – che fino al giorno prima ha bluffato sul fatto di «non credere alla sfiducia – lasciava filtrare attraverso i suoi, ancor prima che la mozione fosse votata, che lo avrebbe rimpiazzato nel giro di ventiquattr’ore. Da giorni in realtà – e ancor prima che lunedì Le Pen annunciasse il suo supporto alla censura – l’Eliseo si consultava sui nomi di un futuro premier. Ne circolano già insistentemente almeno un paio: quello del ministro Sébastien Lecornu e quello di François Bayrou, vociferato già allo scorso giro.
«È sulla lunga durata che si misura la vittoria», diceva Michel Barnier – scalatore nello sport e nella politica – ai tempi del negoziato su Brexit; e può suonare paradossale dato che il suo governo passerà alla storia per la durata breve. Ma la sua portata non va sottovalutata: questa fase ha contribuito alla progressiva transizione verso l’estrema destra che Macron stesso sta (in svariati modi e da svariato tempo) favorendo. Barnier stesso è stato scelto perché combinava le origini golliste e l’apparenza rispettabile con le derive recenti: prima ancora di diventare premier, predicava una “Frexit” sull’immigrazione.
I piani di Le Pen
Per una mozione di sfiducia approvata – e in Francia non capitava dal 1962 – ci sono molteplici piani per il futuro. Quello di Marine Le Pen mira all’Eliseo, bersaglio indiretto della sfiducia contro il governo. Dopo aver gettato la Francia in mesi di stallo e crisi politica, nei quali la sua unica bussola certa è stata escludere il Fronte popolare, il presidente francese – i cui fedelissimi sono andati a cena coi lepeniani per tutta l’estate – ha scelto di nominare un governo di minoranza sulla base di un accordo tacito con Le Pen stessa. «Non si possono ignorare i milioni di francesi che il Rassemblement rappresenta»: questa è stata dall’inizio la linea dichiarata di Barnier, mentre quella non dichiarata da lui – ma denunciata dal Fronte nella mozione – consisteva in un vero e proprio accordo di convivenza con l’estrema destra.
Peccato che dall’inizio l’estrema destra stessa si fosse riservata pubblicamente di staccare la spina all’occorrenza; cosa che poi ha fatto, sull’espediente del mancato adeguamento all’inflazione delle pensioni, dopo mesi di concessioni da parte del governo. Chi quelle cene tra macroniani e lepeniani le frequenta, come Édouard Philippe, sin dalle ore della nomina di Barnier si sta preparando allo scenario di presidenziali anticipate in primavera. «Fantapolitica», così Macron ha per l’ennesima volta liquidato l’ipotesi di dimissioni alla vigilia della sfiducia. Ma esattamente su questa ipotesi è tornata questo mercoledì Marine Le Pen, in veste di capogruppo dell’RN all’Assemblea nazionale: «Davvero Macron pensa di poter ignorare l’evidenza?».
La sfida per il Fronte
«Le Pen e Mélenchon sono i due estremi. Ma che cosa ci fate ancora con loro?». In aula Gabriel Attal – che è stato premier, che ora è capogruppo di Ensemble, e che allora come oggi fa l’alter ego dell’Eliseo – ha replicato la stessa strategia che il presidente ripete da mesi: ha ammiccato ai socialisti (tra i quali ha cominciato a far politica proprio come Macron) sperando ancora una volta di disancorare dal Fronte uno dei suoi principali componenti (divide et impera). Demonizzare Jean-Luc Mélenchon, il fondatore della France insoumise, è la strategia usata dai macroniani sin dalle legislative 2022: in questo le destre di ogni conio cantano all’unisono.
Finora il Fronte è sopravvissuto ai tentativi di distruggerne il potenziale di alternanza, ma la fine del governo Barnier è l’inizio di una sfida per la sinistra: resterà compatta? Le recenti dichiarazioni di Olivier Faure, il segretario socialista, distanziano più che unire: con la France insoumise «c’è disaccordo netto su quel che vogliamo fare». La divergenza sta nel fatto che i melenchoniani puntano a buttar giù Macron, mentre – specialmente nelle ultime ore – dai socialisti arrivano aperture «al dialogo». Boris Vallaud, il capogruppo socialista, invoca la «parlamentarizzazione», cioè trovare un accordo d’aula coi macroniani piuttosto che puntare a buttar giù il presidente. Potrebbe rivelarsi una trappola – c’è il rischio di logorarsi assieme ai macroniani in crisi di consenso – sempre che la non sinistra si accontenti di una fermata al governo mentre Le Pen si dirige all’Eliseo.
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