Prevedere che da una delle impasse istituzionali più lunghe e intricate che la Francia ricordi venisse fuori un governo non esattamente stabilissimo non era difficile. Immaginare che questo esecutivo potesse avere problemi ancora prima della presentazione dei ministri, però, va un gradino oltre qualsiasi capacità d’immaginazione. Il governo di Michel Barnier, nominato primo ministro solo 16 giorni fa, è già a uno snodo cruciale e la situazione non sembra destinata a migliorare nel breve termine.

Innanzitutto, c’è la questione dei nomi. Nella serata di giovedì l’ex negoziatore Ue per la Brexit ha annunciato di aver trovato un accordo per una squadra di governo che rispetti tutti gli equilibri necessari. Dall’Eliseo, però, dicono che sono necessari alcuni ritocchi dell’ultimo minuto. Motivo per cui la rosa non è stata resa pubblica ieri, ma lo sarà oggi o comunque «entro domenica», come dicono da Matignon. Per quanto riguarda gli equilibri politici, sette dei 16 ministri previsti dovrebbero provenire dai ranghi macroniani, e altri tre da altre formazioni centriste: due dal MoDem di Bayrou e uno da Horizons, il partito di Edouard Philippe. Un assetto che ha suscitato ironia tra i ranghi della sinistra, tra cui in molti si sono chiesti, ieri, se non bastasse un semplice rimpasto di governo per conservare una stragrande maggioranza di ministri provenienti dal campo presidenziale.

A destra, invece, tre nomi dovrebbero provenire dai Républicains, il partito di Barnier, mentre uno dalle file dell’Udi, l’Unione dei democratici e indipendenti. Infine, un ministro a testa dovrebbe andare a esponenti del centrodestra e del centrosinistra fuori dai partiti principali. Alcuni dei profili che sono già trapelati, tuttavia, fanno storcere il naso a molti. È il caso, ad esempio, di Laurence Garnier, attualmente senatrice dei Républicains, che dovrebbe diventare la nuova ministra per la Famiglia. Garnier è però entrata nell’occhio del ciclone per aver preso parte, nel 2013, alla Manif pour Tous, un movimento che si opponeva, all’epoca, alla legge Taubira che ha legalizzato il matrimonio e l’adozione per persone dello stesso.

Garnier, inoltre, lo scorso anno ha votato contro l’inserimento del diritto all’aborto in Costituzione, e si dice contraria alla penalizzazione delle “terapie di conversione”, ovvero tutte quelle pratiche che intendono “correggere” l’orientamento sessuale delle persone non eterosessuali. Un profilo inadatto a tal punto che pare che uno degli aggiustamenti richiesti da Macron sia proprio quello di depennare il suo nome dalla lista.

Anche il nome di Bruno Retailleau, presidente del gruppo dei Républicains e profilo più quotato per il ministero dell’Interno, non convince le frange meno a destra della nuova maggioranza. Come il MoDem, che ieri ha tenuto una sorta di “riunione di crisi” per cercare di ricomporre un gruppo che, infastidito anche dalla perdita di un ministro rispetto ai tre attuali, vedrebbe quasi l’80 per cento dei deputati contrari alla partecipazione al governo.

Chi invece non sarà parte del match è Gerald Darmanin, l’ex titolare dell’Interno, che ieri ha lasciato definitivamente il ministero e non figura tra i macroniani candidati a restare al governo. Come invece è il caso di Sébastian Lecornu, confermato alle Forze Armate. Voci maligne, ma non senza ragioni di fondo, dicono che sia Macron che Barnier non vogliano pesi massimi – e possibili candidati presidenziali – a sabotare potenzialmente l’esecutivo dall’interno.

Oltre alla questione della squadra di governo, poi, il peggio per Barnier arriverà una volta insediatosi pienamente. Il primo ottobre, il nuovo premier è atteso dal discorso di politica generale, in cui dovrà delineare le priorità del proprio operato. Ma a tenere banco è soprattutto la questione del bilancio per il 2025.

Giovedì, dopo un inseguimento che aveva assunto contorni grotteschi, il presidente della commissione Finanze e il relatore generale per il Bilancio hanno ottenuto documenti sulle spese previste per i ministeri: che ammonterebbero a 492 miliardi, in linea con le attese, seppur penalizzando le voci per il lavoro e l’occupazione a vantaggio delle competenze presidenziali. Ma persino Barnier ha giudicato la situazione relativa al bilancio come «molto grave», chiedendo «tutti gli elementi per valutarne l’entità esatta».

Un vicolo cieco tale che nei giorni scorsi si era fatta avanti perfino l’ipotesi delle dimissioni anticipate di Barnier, incapace di trovare una via d’uscita di fronte ai veti incrociati e agli scarichi di responsabilità. Voci subito smentite da fonti che sostengono come «non sarebbe nell’interesse di nessuno». Eppure, la stessa necessità di dover smentire voci su un premier insediato nemmeno venti giorni fa, da l’idea del livello di nevrosi raggiunto nel paese. Ed è solo l’inizio.

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