Questo venerdì finalmente il presidente della Repubblica riceverà i gruppi politici, così la Francia intera sta aggrappata al calendario e a questo barlume di consultazione, visto che sono passati tempi lunghi e anomali – quasi due mesi ormai – dal 7 luglio delle elezioni legislative. Il fatto è che Emmanuel Macron ha imposto a tutti il ritmo dei suoi calcoli politici: prima c’è stata la fretta estrema, con la quale ha sciolto l’aula senza neppure aspettare i risultati ufficiali delle europee di giugno; poi l'attesa forzata, il rimpallo, la tregua olimpica, lo stallo, e qualsivoglia altra forma di procrastinazione e logoramento, così che uno dei paesi architrave d’Europa resta tuttora appeso a un premier dimissionario.

I segni di intolleranza si moltiplicano: gli editorialisti dicono «ora basta»; persino gli alleati macroniani, come François Bayrou, iniziano a scuoter la presidenziale giacca. E poi c’è Jean-Luc Mélenchon, che con la France Insoumise va minacciando la destituzione del presidente senza coordinarsi con le altre componenti del nuovo Fronte popolare. Succede così che, dopo aver tanto faticosamente composto un’unione, i frontisti tornino a scomporsi a pochi giorni dalla consultazione. L’effetto di deflagrazione del campo a sinistra spiega da sé per quale motivo Macron abbia chirurgicamente imposto tempi lunghi a costo di generare sdegno e irritazione. Ormai c’è chi si è rassegnato a non vedere un nuovo governo prima di settembre.

Tra Macron che tiene tutti bloccati e Jean-Luc Mélenchon che si agita da solo, il paese sembra stretto in una trappola. Tutto lo slancio che ha portato i francesi a votare con tassi di partecipazione rara fermando la destra estrema, si schianta ora su scenari senza visione: al compromesso necessario per avere i numeri si somma il boicottaggio doppio del Fronte popolare, tra Macron che prova a depotenziarlo e Mélenchon che scompaginandolo finisce per contribuire.

Un venerdì di prova

E pensare che proprio in vista del venerdì di consultazioni il Front populaire era riuscito a dare un messaggio di compattezza. Macron infatti dialogherà uno per uno coi blocchi rappresentati in aula – senza escludere dal computo l’estrema destra lepeniana del Rassemblement National – ma le forze politiche che compongono il Fronte (dunque insoumis, socialisti, ecologisti, comunisti) hanno ottenuto di incontrare il presidente insieme; peraltro prime a esser ricevute all’Eliseo, per un dato di ampiezza rappresentativa.

Un’altra conquista dovuta proprio alla capacità di restare uniti è la possibilità accordata a Lucie Castets, che non ha incarichi formali se non di funzionaria a Parigi, perché possa prender parte all’incontro. Dopo tensioni, conflitti interni e settimane di travaglio, il Front populaire era riuscito prima delle Olimpiadi a concordare sulla proposta di Castets per la guida del governo. E dato il rifiuto granitico da parte di Macron nel riconoscere al Fronte un ruolo da protagonista – perché prima il presidente ha negato che qualcuno abbia vinto le elezioni, poi ha fatto finta di non vedere la proposta di nome – la premier in pectore della sinistra aveva provato negli ultimi giorni a smontare la strategia presidenziale.

Oltre a porsi con attitudine costruttiva, come si è visto dall’invio ai parlamentari delle sue proposte programmatiche, Castets ha assunto anche una postura negoziale. Dopo le elezioni, infatti, Mélenchon aveva detto che il prossimo governo avrebbe dovuto adottare il programma del Fronte, punto e basta; i socialisti, pur invocando coerenza programmatica, avevano invece riconosciuto che un dialogo sarebbe stato necessario.

Lucie Castets ha appunto cercato il dialogo. Una strategia che avrebbe depotenziato quella di Macron: tanto più il presidente puntava a etichettare gli insoumis come fuori da ogni arco repubblicano, quanto più lei assumeva toni istituzionali; tanto più lui provava a spaccare i frontisti assorbendo l’ala moderata, quanto più lei attraverso il dialogo ricomponeva tutti. Ma la strategia funziona a patto di destituire l’obiettivo principe dell’Eliseo, e cioè quello di spaccare il Fronte. Restare uniti resta il cardine. Peccato che nel weekend la pace artificiale sia deflagrata a seguito di una mossa mediatica congegnata da Mélenchon.

Divide et impera

Domenica il fondatore della France Insoumise, assieme ai fedelissimi Manuel Bompard (coordinatore del partito) e Mathilde Panot (capogruppo all’Assemblea), ha consegnato alla stampa un intervento il cui titolo dice già tutto: Démettre le président plutôt que nous soumettre, destituire il presidente piuttosto che piegarci noi; se Macron non nomina Castets gli insoumis presenteranno in Assemblea una richiesta di destituzione: questo è il monito.

E si sarebbe tentati di inquadrare il gesto all’interno della dialettica negoziale, con gli insoumis a fare da “poliziotto cattivo” e il fronte a raccoglierne l’esito negoziale, se non fosse che gli altri in questione hanno sùbito denunciato il fatto di non esser stati consultati, prendendo le distanze dall’operazione. Operazione politica e mediatica (per metterla a segno sul piano istituzionale pare non bastino i numeri) che rischia di scompaginare la strategia tenuta finora. Così la lettera nata contro Macron si rivolta come un boomerang contro l’unione a sinistra.

Col protrarsi della crisi politica aumenta pure l’insofferenza, tanto che persino le Monde si è sentito in dovere di mandare un messaggio all’Eliseo: «Mélenchon continua a coltivare l’illusione che la sinistra possa governare da sola», recita un editoriale. Ma soprattutto, Macron «smetta di far giochetti e prender tempo». Titolo perentorio: Macron doit cesser de jouer la montre. Chissà che lui riceva.

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