- La maggioranza delle società della filiera energetica italiana è a partecipazione pubblica. A giudicare dai risultati, la strategia è stata mettere il cappio russo al collo del nostro paese.
- Una volta che lo stato è azionista di una società con una posizione dominante la sua regolamentazione diventa oltremodo difficile perché l’Autorità preposta, oltre all’influenza del potere economico e relazionale del regolato, subisce quella del governo.
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Paghiamo un costo enorme non solo in termini di cattiva governance, strategie costose per il paese e poca concorrenza, ma anche congelando nelle imprese a partecipazione pubblica un enorme capitale.
La crisi energetica, esacerbata dalla guerra in Ucraina, dovrebbe essere l’occasione per una seria riflessione sullo stato azionista. Non sul ruolo dello stato nell’economia o dell’iniziativa pubblica volta a indirizzare l’uso delle risorse o promuovere lo sviluppo, ma dello stato in senso lato (governo, enti locali, e istituzioni a controllo o emanazione pubblica come Cassa depositi e prestiti, Invitalia o F2i) in quanto influente azionista di società, spesso insieme a privati, che operano in mercati potenzialmente aperti alla concorrenza.
Ci è stato ripetuto fino alla noia che il ruolo pervasivo dello stato nelle imprese italiane è “strategico”, o che lo sono le attività delle imprese partecipate. Ma nessuno si è preso la briga di spiegarci cosa significhi esattamente “strategico”, come se il termine fosse diventato una verità evidente. Le recenti vicende rendono però necessario un chiarimento.
La maggioranza delle società della filiera energetica italiana (approvvigionamento, produzione, trasporto, e distribuzione di luce, gas, greggio e combustibili) è a partecipazione pubblica. A giudicare dai risultati, la strategia che lo stato azionista avrebbe elaborato con il management delle imprese di cui è socio di riferimento, è stata mettere il cappio russo al collo del nostro paese.
Dipendenti dal gas
Con il 16 per cento dell’intero fabbisogno energetico coperto dal gas russo siamo primi in Europa (la Germania ci segue col 15, mentre la media europea è nove). Siamo il paese europeo che più dipende dal gas in generale, con quasi il doppio della media europea (40 per cento rispetto a 24), ma i tubi della Snam rimangono ampiamente sottoutilizzati (tant’è che la società vuole riempirli con l’idrogeno anche se non è chiaro chi e come lo produrrà).
In compenso il più grande rigassificatore italiano (Rovigo), indispensabile per il gas liquefatto, vera alternativa alle forniture russe, è per il 90 per cento dell’americana Exxon e del Qatar e fornisce il gas prevalentemente a Edison, passata ai francesi.
Lo stato è azionista di Enel, leader mondiale delle fonti rinnovabili, ma in Italia le rinnovabili contano meno che nella media europea (venti per cento contro 22). E può accadere che sia proprio lo stato con le sue imprese a investire in energia fossile per aiutare il privato a concentrarsi sulle rinnovabili, come è appena successo con Enel, che ha rilevato la centrale a gas di Priolo dagli ex petrolieri di Erg.
Quanto a rinnovabili, siamo avanti di un punto appena rispetto alla Francia, che però copre col nucleare il 70 per cento del fabbisogno, e alla Germania, la grande sponsor del gas russo; ma molto indietro rispetto a Svizzera e Austria che fanno affidamento sull’idroelettrico anche se noi abbiamo più chilometri di montagne di questi due paesi.
Una strategia fallimentare per il paese. E lo stato non può esimersi dalle proprie responsabilità: la buona governance richiede che sia il socio di riferimento ad approvare i piani strategici, fissare gli obiettivi e nominare gli amministratori capaci di raggiungerli.
Lo stato azionista
Lo stato è socio rilevante di quasi tutte le società che gestiscono le “reti” italiane; e con la prospettata fusione Tim-Open Fiber lo diventerà anche della rete unica per internet, in quanto “strategica”. Probabilmente eserciterà il controllo su questa rete tramite Cdp Reti, di Cassa depositi e prestiti che già controlla quelle di gas ed elettricità (tramite Italgas, Snam, e Terna).
Ma in Cdp Reti è socio il governo cinese, col 35 per cento, tramite lo State Grid Corporation of China, società interamente pubblica e in quanto tale soggetta all’organo politico al vertice della Repubblica popolare.
È bizzarro che, per difendere attività “strategiche”, lo stato italiano abbia scelto come socio proprio la Cina i cui investimenti esteri in infrastrutture vengono sempre più osteggiati nel mondo per via delle sue ambizioni espansionistiche; e visto che ha proibito alla cinese Huawei di fornire tecnologia per il 5G per ragioni di sicurezza.
Si potrebbe immaginare che la “strategia” dello stato imprenditore sia incidere in modo più efficace sulla struttura economica del paese per migliorarne le prospettive di crescita, al di là dei tanti strumenti già a sua disposizione (tasse, incentivi, regolamenti, accordi internazionali, o programmi come il Pnrr). Ma anche qui il risultato sembra l’opposto.
Di fatto lo stato entra nel capitale di imprese che hanno un forte potere monopolistico, o addirittura aiuta a rafforzarlo, come nella prospettata fusione della rete Tim con Open Fiber; o in quella possibile RaiWay-Ei Towers; o nelle Autostrade per l’Italia, quando già controlla le concessioni Anas; o non separando l’alta velocità (aperta alla concorrenza) dalla gestione della rete ferroviaria.
Ma una volta che lo stato è azionista di una società con una posizione dominante la sua regolamentazione diventa oltremodo difficile perché l’Autorità preposta, oltre all’influenza del potere economico e relazionale del regolato, subisce quella del governo che nomina i vertici di chi regola le società di cui lo stato è socio rilevante.
Rendite monopolio
Bastano pochi numeri: negli ultimi cinque anni, Terna, Snam e Italgas hanno beneficiato di un rendimento sul capitale in media rispettivamente del 18, 14 e 22 per cento, rispetto al 10 delle utility europee, e superiore anche al 13 medio di Atlantia nel quinquennio precedente al crollo del ponte Morandi. O il 36 per cento medio di Rai Way (pagato indirettamente col canone) che rivaleggia con il 34 di American Tower Corporation, leader negli Usa.
Non sorprende quindi che il private equity accorra ogni volta che c’è la prospettiva di investire assieme allo stato come in Tim, Open Fiber, Autostrade o Ei Towers. Che molte siano rendite di monopolio lo ha sancito il governo stesso con la tassa sugli extra-profitti nel settore energetico (e che il ministro Cingolani ha apertamente messo sotto accusa); dimenticandosi però che di molti monopolisti lo stato è azionista di riferimento.
Lo stato imprenditore non serve neanche a migliorare la governance delle società in cui nomina gli amministratori: i ripetuti disastri di Saipem; la storia opaca di questi giorni per l’intermediazione di armi alla Colombia da parte di Leonardo, dopo lo scandalo per le tangenti per la vendita di elicotteri all’India; i miasmi nella governance di Eni, anche se penalmente irrilevanti; il tourbillon di amministratori e commissari nelle tante vicende societarie impaludate in cui lo stato interviene (Ita-Alitalia, Acciaierie Italiane-Ilva, Mps, Anas, o la stessa Tim).
Neppure credibile che la partecipazione pubblica sia indispensabile a mantenere il controllo delle società in mani italiane visto che c’è il golden power appositamente per questo scopo e visto che nessuno, per esempio, potrà mai pensare di acquisire il controllo di Lockheed Martin, General Dynamics, Northrop Grumman, o Raython, ovvero il cuore della difesa americana, questa sì strategica, anche se il foverno federale non ne detiene una singola azione.
Ma in questo modo si paga un costo enorme non solo in termini di cattiva governance, strategie costose per il paese e poca concorrenza, ma anche congelando nelle imprese a partecipazione pubblica un enorme capitale che potrebbe più utilmente essere investito in capitale “sociale” (ricerca e sviluppo, istruzione, sanità, sicurezza) e che invece finanziamo a debito: a tanto ammonta il Pnrr.
L’unica cosa veramente “strategica” per lo stato imprenditore è il potere di nominare i vertici delle imprese. Un sistema ormai incancrenito che può solo perpetuarsi.
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