- Il partito ultraconservatore che è al governo in Polonia, e che in Europa è alleato di Fratelli d’Italia, minaccia testualmente di «prendere a cannonate» l’Ue. Il premier polacco sostiene che sull’integrazione europea «a volte è meglio fare un passo indietro».
- Sotto l’ombrello dei buoni rapporti con gli Usa e in virtù del ruolo di scudo contro Mosca, il governo polacco aveva ottenuto dalla Commissione Ue grande elasticità e il via libera al Pnrr. Ma non ha fatto progressi sullo stato di diritto, e ora che i soldi non arrivano, tira fuori tutto il repertorio euroscettico.
- Al di là della retorica, c’è la sostanza politica: la volontà di frenare un’Unione politica forte e la minaccia di lasciare l’Ue ostaggio dei veti e dell’unanimità. La destra polacca mostra che essere «atlantisti» non significa necessariamente essere anche europeisti, e anzi può voler dire proprio l’opposto.
Il partito ultraconservatore che è al governo in Polonia, e che in Europa è alleato di Fratelli d’Italia, minaccia testualmente di «prendere a cannonate» l’Unione europea. Il premier polacco, Mateusz Morawiecki, parla dell’integrazione europea in questi termini: «A volte è meglio fare un passo indietro, piuttosto che due avanti». Sotto l’ombrello dei buoni rapporti con Washington e in virtù del suo ruolo di scudo contro Mosca, Varsavia negli scorsi mesi ha ottenuto dalla Commissione europea grande elasticità, fitti negoziati, e per finire anche il semaforo verde al suo piano di ristoro (Pnrr). Ma tutto questo, come era prevedibile, non ha comportato in cambio nessuna svolta sostanziale né sul piano interno, per il rispetto dello stato di diritto, né verso l’Europa, con la quale il governo polacco continua a sfoggiare un’ampia gamma di provocazioni, nel pieno stile della Polexit che Meloni applaudiva. Ora che i soldi europei di conseguenza non arrivano, gli ultraconservatori al potere in Polonia scalpitano e sfoggiano tutto il vecchio repertorio di euroscetticismo. E dimostrano coi fatti che essere «atlantisti» non significa necessariamente essere anche europeisti; anzi, può voler dire proprio l’opposto.
L’indulgenza di Bruxelles
Lo scontro estivo si sviluppa a cominciare dalla fine di luglio, quando la presidente della Commissione europea, intervistata da un giornale polacco, lancia un messaggio al governo. Per garantire l’indipendenza dei giudici dal potere esecutivo, la riforma approvata di recente in Polonia non basta di certo, fa sapere Ursula von der Leyen; quindi, a meno che la situazione non cambi, non verrà sbloccata alcuna tranche dei soldi europei. Per quanto sgradito alla destra polacca, questo messaggio è del tutto prevedibile, così come era prevedibile per la Commissione che Varsavia non avrebbe realmente risolto la questione dell’indipendenza dei giudici. La leva finanziaria del Recovery plan è tra le più efficaci, se si tratta di far rispettare lo stato di diritto: altre procedure, come quella dell’articolo 7, sono impantanate da anni; ma il linguaggio dei soldi è immediato. Tuttavia la Commissione von der Leyen, in linea con la tradizione di compromesso dei governi, passata in eredità da Angela Merkel a Emmanuel Macron, già lo scorso autunno aveva fatto intendere che un accordo sui soldi ci sarebbe stato. Mentre von der Leyen faceva arringhe sulla democrazia e il premier polacco faceva propaganda contro Bruxelles, le due parti convergevano su un punto: abolire la camera disciplinare, simbolo del controllo del governo sui giudici, e aprire il portafoglio europeo (uno scenario che a Varsavia varrebbe 24 miliardi di sussidi e 11 in prestiti). La guerra, il rafforzamento dei legami tra Polonia e Stati Uniti, il ruolo di pontiere del presidente polacco Andrzej Duda e la strategia lanciata dal leader statunitense Joe Biden per scomporre il fronte Varsavia-Budapest, hanno fatto da catalizzatori alla scelta di von der Leyen di digerire un accordo. A inizio estate la Commissione ha detto sì al piano polacco, in quella che giuristi come Franz C. Mayer hanno definito come una vera e propria «capitolazione». Difensori dello stato di diritto, giuristi, opinione pubblica, europarlamentari, sono insorti contro la mossa di von der Leyen. La presidente si è quindi protetta dietro all’argomento che neppure un euro sarebbe stato sborsato, se Varsavia non avesse prima raggiunto i traguardi (milestones) concordati nel negoziato per il Pnrr e relativi allo stato di diritto.
L’arroganza di Varsavia
La riforma che porta il nome di Duda, il presidente-pontiere, non risolve affatto però la questione dell’indipendenza dei giudici, anche se formalmente spazza via la vecchia camera disciplinare. Sulla natura puramente «cosmetica» del provvedimento, la Commissione era già stata messa in guardia – invano – da autorevoli giuristi come Kees Sterk, accademico olandese che è stato presidente dello European Network of Councils for the Judiciary. E che già quest’inverno diceva: «Questa riforma non basterà, non risolve il problema». A giugno il presidente ha siglato il provvedimento, e a luglio nell’intervista von der Leyen ha versato lacrime di coccodrillo. Per tutta risposta, gli ultraconservatori polacchi sono andati all’assalto. Jaroslaw Kaczynski, leader del partito al potere, il Pis, ha replicato anche lui con un’intervista. E in pieno stile Polexit, se n’è uscito con frasi del tipo: «Non abbiamo motivo di adempiere ai nostri obblighi nei confronti dell’Unione europea». Ha accusato Ursula von der Leyen di non rispettare i patti e minacciato di renderle la vita (politica) difficile, infiocchettando il tutto con dichiarazioni contro l’euro e di accuse a Berlino di fare il gioco di Mosca.
Una destra disgregatrice
Kaczynski ha dato il via al fuoco di fila contro l’Ue: Krzysztof Sobolewski, il segretario generale del suo partito, è arrivato a dire che «se la Commissione ci fa muro useremo i cannoni e tutte le armi nel nostro arsenale», tra le quali il potere di veto. Ryszard Legutko, che assieme a Raffaele Fitto di Fratelli d’Italia copresiede il gruppo dei conservatori all’Europarlamento, ha parlato di una svolta da intraprendere nei confronti dell’Ue. E non si riferiva certo a una maggiore integrazione: a colpi di editoriali sui quotidiani europei, questo mese pure il premier polacco è sceso nel campo di battaglia retorico. Ma le minacce sono politiche: quando Mateusz Morawiecki scrive che «rinunciare al principio dell’unanimità porterebbe alla dominazione dei grandi sui piccoli» e che «sull’integrazione è meglio fare un passo indietro», sta esibendo l’intenzione di frenare un’Europa politica più forte e incisiva. Anche se a parole, viste le diverse posizioni verso la Russia, Polonia e Ungheria non sono più alleate come prima, in realtà tenere l’Ue impantanata nella regola dell’unanimità significa lasciarla in ostaggio dei veti di Viktor Orbán, così come degli alleati polacchi di Meloni. Il riferimento all’unanimità è una minaccia più concreta di altre esternazioni di Morawiecki («L’ordine Ue non ci protegge»).
Atlantismo antieuropeo
Nel suo assalto all’integrazione politica europea, la destra polacca conta sui legami sempre più forti con gli Usa e fa leva sul suo sostegno politico e militare all’Ucraina: Morawiecki accusa Berlino di complicità con Mosca, dice che Varsavia metteva in guardia da tempo ed è «la voce della verità». Riferendosi alle scelte militari di Varsavia, e alle possibili conseguenze per tutta l’Ue, l’ex ambasciatore Sergio Romano ha non a caso commentato che la Polonia «sta compiacendo gli Usa, ai quali è più vicina che all’Ue». I fatti confermano: mentre la destra amica di Meloni difende la «politica dei veti» a dispetto di una unione politica più forte, intanto gli Usa vendono a Varsavia i loro carri armati Abrams, hanno truppe dispiegate sul suolo polacco, e quest’estate Joe Biden ha annunciato che il quartier generale Usa in Polonia è lì per restare.
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