Gli eurodeputati portano la presidente di Commissione europea alla Corte di Giustizia Ue perché ha sbloccato 10 miliardi all’autocrate ungherese. Intanto il j’accuse del padre di Ilaria Salis rende ancor più evidenti le derive dell’alleato di Meloni
Mentre Giorgia Meloni stringe sodalizi con Viktor Orbán, che pianifica di entrare nel suo gruppo politico conservatore dopo le europee, l’Europarlamento punzecchia l’autocrate ungherese e chi lo asseconda. La settimana è cominciata con il via libera della commissione Affari legali del parlamento Ue al piano di portare la Commissione von der Leyen davanti alla Corte di giustizia Ue. Ed è proseguita questo martedì con una conferenza stampa sul caso Salis all’Europarlamento, per allertare sugli attacchi allo stato di diritto da parte del governo orbaniano.
Le due iniziative rappresentano un ultimo sforzo degli eurodeputati – a fine legislatura – per difendere la rule of law. Si tratta indirettamente anche dell’ultimo affondo contro l’orbanizzazione della politica europea, della quale Meloni è tra i principali artefici.
«Portare a casa Ilaria»
Roberto Salis questo martedì in Europarlamento ha riferito il «senso di agitazione» di sua figlia dopo «le uscite del governo ungherese e le interferenze sul potere giudiziario». Un quadro che allerta anche organizzazioni per i diritti umani come Amnesty, il cui portavoce Riccardo Noury parla infatti di «una enorme preoccupazione sulla possibile iniquità del processo a causa della narrazione criminalizzante operata dal governo Orbán».
La famiglia Salis presenterà a ridosso dell’udienza del 28 marzo «l’istanza per i domiciliari in Ungheria», dice il padre di Ilaria. In particolare dopo le accuse da parte del governo Orbán, la situazione «appare sempre più come un processo politico», il che evidenzia le anomalie orbaniane: «Ho visto cose che per un membro dell’Ue dovrebbero essere inaccettabili».
Una inazione del governo italiano sul caso, o anche solo il piano di prendere Fidesz nel proprio gruppo, diventano in teoria sempre più imbarazzanti per Meloni alla luce della situazione descritta da Roberto Salis in Europarlamento. «Questa storia rivela l’assenza di una azione incisiva da parte di chi dovrebbe tutelare gli interessi dei cittadini italiani»: Brando Benifei, capodelegazione Pd, si riferisce al governo Meloni.
L’eurodeputato Massimiliano Smeriglio (Avs) ha promosso assieme a Benifei il punto stampa con il padre di Ilaria, e poi un flash mob, tentando di ampliare il fronte: oltre alla partecipazione di Rosa D’Amato dei Verdi, a Nicola Danti di Renew e a Sabrina Pignedoli (M5s), c’è stato un incontro di Roberto Salis con la presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola, che è del Ppe ed è politicamente amica di Fratelli d’Italia. «Un fronte largo può aiutarci a contenere il clima pesante che si respira in Ungheria», dice Smeriglio. Questo martedì in conferenza stampa le forze che compongono l’esecutivo Meloni non si sono fatte vedere, neppure Forza Italia che è del Ppe.
Spezzare il fronte a destra
Diversamente si sono comportati i popolari sull’altro versante, ovvero la sfida legale contro von der Leyen, responsabile di aver sbloccato al despota dieci miliardi di fondi europei guarda caso proprio alla vigilia del Consiglio europeo di metà dicembre sul quale gravava un veto orbaniano poi disinnescato. È politicamente rilevante che il Ppe – la famiglia di provenienza della presidente, e che la sostiene per un secondo mandato – abbia appoggiato la sfida.
«Il servizio giuridico dell’Europarlamento ha avvertito che non è sicuro che l’azione legale possa avere successo», racconta l’ex procuratore antimafia e oggi eurodeputato dem, Franco Roberti, «ma noi membri della commissione Juri siamo stati tutti d’accordo (tranne uno) sul fatto che bisogna fare ciò che è giusto: sullo stato di diritto non possiamo ammettere deroghe». Chiedere a von der Leyen di rispondere della propria cedevolezza a Orbán è di per sé un atto politico, a prescindere dall’esito della sfida legale.
«Giovedì in conferenza dei presidenti i capigruppo dovranno dare il via libera a Metsola per portare la Commissione davanti alla Corte entro il 25 marzo», spiega Daniel Freund, eurodeputato verde, gran fustigatore di Orbán. «Per avere un verdetto e perché sia annullato il disborso di quei miliardi, ci vogliono circa 19 mesi». Nel frattempo pure il Ppe manda un segnale. Le storie di Salis e della sfida legale, accomunate dal tema dell’erosione dello stato di diritto in Ungheria, rivelano le dinamiche in corso fra famiglie politiche.
Il leader dei popolari europei, Manfred Weber, ha avviato la cooperazione con Meloni dal 2021 a condizione di guidare lui il processo di assimilazione della destra estrema. L’alleanza tra i due si fondava non a caso sul boicottaggio da parte di Meloni del piano di fusione tra conservatori (Ecr) e sovranisti (Id).
Se la premier accoglie Fidesz nella sua famiglia, ciò complica la liaison di lei con il Ppe: i conservatori acquisiscono più peso negoziale; inoltre i popolari tre anni fa hanno divorziato da Orbán, che prima era dei loro. Dunque il Ppe è d’accordo nel dare un segnale a chi si mostra cedevole col despota. Per l’opposizione nostrana, dal canto suo, esplicitare l’anomalia del caso Salis significa evidenziare la natura autocratica dell’alleato di Meloni.
A dispetto della versione meloniana, che presenta la vicinanza a Orbán come un tentativo di atlantizzarlo, questo martedì il governo orbaniano ha dato l’ennesima prova del contrario: il ministro degli Esteri Péter Szijjártó – accusatore di Salis – ha convocato l’ambasciatore Usa. Nelle stesse ore Szijjártó accoglieva a braccia aperte Rosatom.
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