«Credo sia saldamente nel campo occidentale», ha detto questo venerdì – riferendosi a Viktor Orbán – il leghista Lorenzo Fontana, che già prima di essere promosso dalla maggioranza meloniana alla presidenza della Camera era un sodale del governo di Budapest nonché frequentatore abituale della galassia orbaniana. Ma oggi giusto gli amici del gruppo dei «Patrioti per l’Europa» – che oltre a Fidesz comprende Rassemblement National e Lega – si prendono la briga di ammorbidire le uscite dell’autocrate ungherese.

Per il resto sia a Bruxelles che tra i leader europei si fa piuttosto a gara di simboliche prese di distanza, data non solo la visita di Orbán al Cremlino in piena presidenza di turno ungherese, ma pure i casi recenti dei visti e del petrolio russi, oltre che il fantasma della centrale nucleare russa in Ungheria.

Tensioni sui visti

«Consentire a potenziali spie e sabotatori russi un facile accesso all’Ue minerebbe la sicurezza di tutti noi»: con queste parole la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson ha esibito preoccupazione per la scelta dell’Ungheria di alleggerire il regime dei visti anche a favore della Russia. Preoccupazione che è stata poi circostanziata con una lettera rivolta al ministro degli Interni ungherese Sándor Pintér, uomo di rare esternazioni pubbliche ma di ampio potere; basti pensare che sotto il suo controllo Orbán ha posto anche sanità e istruzione.

Quando parla di «facile accesso di potenziali spie russe», Johansson fa riferimento ai provvedimenti ungheresi sulla cosiddetta «carta nazionale». A dicembre il parlamento ungherese – dominato da Fidesz – ha riformato le norme generali sull’ingresso e il soggiorno dei cittadini di paesi terzi. È stata quindi introdotta la cosiddetta “Carta nazionale”, che concede un soggiorno tra i sei mesi e i due anni nel paese, dunque di fatto nell’area Schengen, per ragioni di lavoro. A luglio il testo è diventato pubblico sulla gazzetta ufficiale ungherese, ed è apparso chiaro così che anche la Russia figura tra i beneficiari dei visti da ottenersi con procedura alleggerita.

Tra le reazioni pubbliche, quella di Manfred Weber, il leader dei popolari europei, che fino al 2021 avevano Fidesz nel proprio gruppo, e che adesso si presentano come i fustigatori: Weber ha scritto al presidente del Consiglio europeo chiedendo che il tema sia affrontato nel summit di ottobre. Poi a inizio agosto è arrivata la lettera della commissaria: una mossa istituzionale di richiesta di spiegazioni. A seguire, anche alcuni governi come quello olandese si sono mostrati irritati.

Affari russi

A maggio la newsletter Goulash aveva già anticipato che le presenze russe in Ungheria erano destinate ad aumentare da 400 a mille nel 2025 per il solo progetto Paks 2, ed è proprio in ragione di questo progetto che oggi il governo Orbán giustifica quello che all’Ue appare di fatto come un baco nel sistema Schengen.

La cooperazione con Rosatom per l’ampliamento della centrale nucleare ungherese ha subìto battute di arresto, ma Russia e Ungheria continuano a fingere il contrario; questo venerdì pur di strappare il controllo alla neoeletta sindaca di opposizione il governo ha pure trasformato l’area in «zona economica speciale».

Oltre alla partita nucleare, che è fumosa, c’è quella assai concreta del petrolio russo: l’Ungheria aveva ottenuto un’esenzione dalle sanzioni Ue, che le ha consentito di continuare a ricevere petrolio russo attraverso l’oleodotto Druzhba. Ma, dopo che di recente è stata Kiev a sanzionare Lukoil, il dossier si è riaperto. Invece di lamentarvi, «dovreste cercare attivamente fonti alternative a quelle russe», ha detto a Slovacchia e Ungheria la Commissione europea per voce di Valdis Dombrovskis, che ha ricordato la necessità di «diversificare» per evitare di restare agganciati ai combustibili fossili russi.

Inoltre proprio questa settimana la Croazia si è offerta di fornire un’alternativa all’Ungheria, che però respinge l’idea; oltre al più generale schema geopolitico, c’è anche un tema di casse per Orbán, e i due livelli sono legati tra loro. In tempi di sanzioni, il greggio degli Urali costa abbastanza poco perché il despota ungherese possa poi rifarsi coi prezzi alla pompa, e lo scarto tra prezzo all’acquisto e incasso per l’erario può esser visto come una sorta di mazzetta putiniana. Ciò si aggiunga al prestito miliardario ottenuto di recente dalla Cina.

Intanto alle aziende statali ungheresi è stato imposto un taglio lineare: la sintesi è che di fronte a un’economia ungherese barcollante Orbán si appiglia a Mosca e Pechino. E di fronte a tali scenari la reazione di Bruxelles, per quanto irritata, sarà sempre «troppo poco, troppo tardi».

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