Dopo uno stallo durato giorni, tutti i nomi in sospeso ottengono il via libera delle commissioni dell’Europarlamento. Socialisti e liberali digeriscono Fitto in nome della sopravvivenza dell’intesa coi popolari, che però spingono sempre più a destra, fino all’ultimo; colpo basso su Ribera incluso.

Le forzature del Ppe

Quanto dura la convivenza pacifica nella maggioranza tradizionale dell’Ue? Neanche il tempo di trovare un accordo di pace apparente sui commissari designati.

Questo mercoledì pomeriggio è stato comunicato un accordo per dare il via libera a tutti (la vicepresidenza esecutiva della Commissione europea al meloniano Raffaele Fitto, l’ok alla sancheziana Teresa Ribera). Persino il più smaccatamente controverso di tutti, l’orbaniano Olivér Várhelyi, a parte qualche ritocco, ha trovato la sua collocazione in squadra assieme agli altri. In apparenza, si è tratteggiato un quieto vivere del sistema, con buona pace di chi lo invocava, da Sergio Mattarella a Romano Prodi, passando – nella mattina di mercoledì – per Enrico Letta: a dispetto degli strepiti di Giorgia Meloni che imputava al Pd di bloccare Fitto, i dem in questo scontro politico hanno cercato più la pace che la guerra, come dimostrano alcuni entusiasmi (Gaetano Manfredi verso Fitto) e alcune delusioni (dei Verdi verso l’accordo). Dal giorno delle audizioni dei vicepresidenti rimaste congelate (era il 12 novembre) è passata una settimana abbondante di negoziati politicamente violenti, ma in tutto questo gioco dell’oca di trattative la pedina è tornata al punto di partenza: tutti dentro e tutti d’accordo.

Tutto bene quindi? Il fatto è che a volte il Gattopardo va letto al contrario, e questo è il caso della saga delle audizioni dei commissari: stavolta nulla è cambiato perché tutto cambi. La stabilità di superficie sottace l’ennesimo slittamento a destra degli equilibri di potere in Unione europea. Non a caso questo mercoledì all’ora di cena Manfred Weber, gran regista di maggioranze che slittano a destra, ha fatto scattare l'ennesima trappola in direzione dei socialisti, con la pretesa che Ribera si impegnasse a dimettersi in caso di indagini legate al caso Dana. Dopo che per qualche frangente i via libera a Fitto e Ribera sono andati in tilt, i nomi sono stati infine sbloccati; ma assieme ai Patrioti per l’Europa (il gruppo di Vox, Orbán e Salvini) il Ppe ha preteso di segnalare come opinione di minoranza la sua pretesa sulle dimissioni della spagnola. Tutto questo mentre intanto i socialisti avevano digerito sia il nome meloniano che quello orbaniano. Quella del Ppe è una polpetta avvelenata che predice la fragilità dell’accordo tra le tre forze politiche della maggioranza tradizionale.

Liberi tutti

Partiamo dall’accordo: anche se la sintesi politica è stata trovata prima e altrove (anzitutto tra il premier spagnolo e Ursula von der Leyen almeno il giorno prima), quel che si è visto da fuori è una brusca accelerazione consumatasi ieri nel pomeriggio all’Europarlamento. Alla conferenza dei capigruppo inizialmente prevista alle 17, i popolari, i socialisti e i liberali sono arrivati con un quarto d’ora di ritardo perché fino all’ultimo hanno concertato tra loro le modalità dell’«accordo a pacchetto»; all’Europarlamento intanto è stato apparecchiato in fretta e furia il processo per dare il via libera ai sette nomi rimasti in sospeso (l’ungherese Várhelyi e la batteria dei sei vicepresidenti esecutivi designati, Fitto compreso).

Così alle 19, in simultanea, sono state convocate le commissioni preposte a dare il via libera ai commissari di propria pertinenza (serve il sì dei due terzi dei coordinatori per passare al primo colpo): per il ministro meloniano la commissione allo Sviluppo regionale (Regi), per Ribera ben tre commissioni (dunque una complessità di equilibri elevata a potenza), e così via.

Fino a poche ore prima, i popolari tenevano in ostaggio Ribera (che questo mercoledì ha dovuto affrontare il Congreso spagnolo) e tra i socialisti c’era chi rimbrottava per la vicepresidenza a Fitto (con francesi e tedeschi a esibire perplessità quando il gioco negoziale lo richiedeva); subito dopo, invece, nessuna rimostranza? «Accordo a pacchetto»: questo è il gergo per indicare che l’assegnazione di una vicepresidenza a un meloniano è stata digerita.

L’accordo del momento

L’ex democristiano Fitto – il primo ad aver avviato l’integrazione di Fratelli d’Italia tramite l’alleanza col Ppe – ha ottenuto quindi la benedizione preliminare pure di socialisti e liberali. Ecco che nulla cambia perché tutto cambi: il beneplacito generale rivela le mutazioni in atto.

Per salvare la faccia (e sperando di salvare quel che resta della maggioranza tradizionale) i socialisti e i liberali hanno voluto che la mossa fosse accompagnata dal gesto di un accordo a tre coi popolari, per mettere in scena una parvenza di governo a tre. L’accordo – visionato da Domani già questo mercoledì pomeriggio grazie a un leak – contiene riferimenti a «competitività», una «efficace politica migratoria», «progressi su difesa e sicurezza», l’Europa come leader globale, «un bilancio Ue ambizioso»; nulla di rivoluzionario.

Nel merito l’accordo non è che una conferma delle linee programmatiche dichiarate da von der Leyen a luglio contestualmente alla sua rielezione, e lo stesso fatto che si dovesse confermarle è indice della fibrillazione in atto a causa del doppio gioco del Ppe con le destre estreme. Si legge tra le righe una certa consapevolezza a riguardo, quando il capodelegazione Pd all’Europarlamento, Nicola Zingaretti, dice a Domani che «la strada è strettissima e lo sappiamo». «Abbiamo chiesto un impegno chiaro perché si riaccenda il motore della maggioranza di luglio», dopodiché «ogni giorno sarà battaglia».

Più esplicito è chi resta fuori dal negoziato: i Verdi, che a luglio avevano appoggiato von der Leyen sperando così di stabilizzare in senso progressista una maggioranza, mettono in dubbio ora il voto finale sulla Commissione, si sganciano già su Fitto e Várhelyi, e soprattutto non nascondono «nervosismo». «L’Ecr è vittorioso perché Fitto passa. Quanto al tentativo dei tre gruppi di avere una dichiarazione che finge di avere una maggioranza stabile, la verità è che una maggioranza stabile non ci sarà», chiosa il capogruppo green Bas Eickhout.

«Del resto quale possibilità di lavoro stabile potrà esserci coi Conservatori, con partiti come il Pis?».Fuori microfono, anche tra i socialisti c’è chi è ben consapevole di dover prepararsi a essere opposizione: il modo in cui Manfred Weber, il leader del Ppe, sta gestendo questa fase – compresa la trappola finale lanciata a Ribera in piena pace negoziale – dimostra tutta la sua intenzione di voler restare regista egemone di maggioranze. Weber ha negoziato perché anche il commissario orbaniano venisse sdoganato da socialisti e liberali e ha pestato ai socialisti spagnoli il loro tallone d’Achille (il rischio che saltasse Ribera); ha già incorporato strutturalmente le destre estreme.

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