Il premier ungherese sfida la Corte penale internazionale (e l’Ungheria si prepara a uscirne). La visita di Bibi rinsalda rapporti consolidati già dagli anni Novanta. Durerà fino a domenica: nell’aria discussioni anche assai riservate su Gaza
C’è un criminale internazionale questo giovedì mattina al Karmelita kolostor, nel quartiere del castello di Buda, con la magnifica vista del Danubio. Viene ricevuto con tutti gli onori dall’attuale inquilino del monastero, che è il primo ministro ungherese.
E Viktor Orbán non si limita ad ospitare a Budapest fino a domenica Benjamin Netanyahu – invitato già a novembre, poche ore dopo che la Corte penale internazionale aveva spiccato il mandato d’arresto contro il premier israeliano, in segno di sfida – ma ha già da tempo chiesto al suo governo di esaminare il ritiro dell’Ungheria dal tribunale stesso.
Assieme al governo Meloni – nei guai con la Corte per il caso Al-Masri – quello orbaniano è stato tra i pochissimi a non firmare la dichiarazione a supporto del tribunale quando è stato attaccato e sanzionato dagli Usa a febbraio con Trump presidente.
Orbán, Bibi, intese illiberali
Già ai tempi di Merkel, lui si assumeva la parte del cattivo che altri – Germania per prima – preferivano non recitare apertamente. Oggi Orbán rischia di trasformarsi in un cliché – icona globale o caricatura di se stesso – e questo è forse ciò che vuole: farsi notare e al contempo perseguire i propri interessi, con l’unica bussola valoriale del pragmatismo, del «livello di potere che si è in grado di conquistare» per usare parole sue.
Dopo essersi distinto come cavallo di Troia di Putin e primo fan europeo di Trump, e aver viaggiato al Cremlino, a Mar-a-Lago e a Pechino in piena presidenza ungherese dell’Ue, questa settimana il premier-autocrate tiene a esibire che è lui – ancora una volta – pure il più filo-Bibi degli europei.
Ci aveva provato già Donald Tusk, a ignorare il mandato di arresto della Corte penale internazionale qualora Netanyahu avesse voluto recarsi ad Auschwitz. Questo mercoledì sera il premier israeliano è atterrato impunemente a Budapest, per la prima volta sul suolo dell’Ue (che si dice «sostenitrice della Cpi») da quando il tribunale ha spiccato il mandato.
L’intesa tra i due premier era già forte prima che Trump tornasse alla Casa Bianca, anche se sicuramente l’arrivo di «un nuovo sceriffo in città» (copyright di J.D. Vance) la ha elevata a potenza. Persino il ritorno di Orbán al governo nel 2010 – l’anno in cui la svolta autocratica dell’Ungheria comincia a prendere forma – è in qualche modo legato a Netanyahu: la campagna elettorale della vittoria, tutta fondata sulla costruzione del nemico, era stata concepita dallo stratega repubblicano Arthur Jay Finkelstein, già consulente per Reagan e Netanyahu.
Ma già nel primo mandato di Orbán – era il 1998 – il leader di Fidesz stringe sinergie con il Likud dell’amico Bibi. Tratteggia bene quella fase lo storico Stefano Bottoni: a conferma del pragmatismo come unica bussola orbaniana, ricostruisce che «dalla fine degli anni ‘90, Orbán infuse pragmatismo e visione strategica nel rapporto con l’ebraismo ungherese e lo stato di Israele mediante una sinergia con il partito conservatore di Netanyahu. Comprese infatti di poter sfruttare un’istanza minoritaria a Budapest ma importante sul piano internazionale: quella dell’identità ebraica visibile promossa dal chassidismo».
A fine 1998 Orbán fu il primo premier ungherese a promuovere la celebrazione pubblica del Hanukkah, e sostenne poi «il rabbino a capo della comunità ortodossa Chabad-Lubavitch. Il suo appoggio a una causa – precisa Bottoni – non è mai disinteressato: Chabad-Lubavitch godeva di importanti ramificazioni in Usa e Israele». Insomma la questione religiosa veniva piegata a faccenda «ideologica e geopolitica, utilizzando l’ebraismo ortodosso per una battaglia interna contro la sinistra liberale». Con l’arrivo al potere di Netanyahu, Israele «sostituì il rapporto privilegiato col centrosinistra ungherese con una collaborazione pragmatica con Orbán».
Tra gli esempi di collaborazione, viene in mente l’uso orbaniano del software di spionaggio israeliano Pegasus contro giornalisti e oppositori emerso nel 2021, forma di controllo a cui si aggiunge oggi il divieto di assemblea con tanto di sorveglianza facciale che sarà testato contro il gay pride (Bruxelles ha detto questo mercoledì di non escludere una procedura di infrazione contro il recente provvedimento orbaniano).
E si pensi anche al fatto che pochi giorni fa il separatista serbo Dodik, spalleggiato da Putin e Orbán, abbia potuto trovarsi in Israele nonostante il mandato d’arresto della corte bosniaca.
Il lato buio di Budapest
Il governo ungherese non si limita a sostenere in tutto e per tutto la linea di Netanyahu; dopo il 7 ottobre si è distinto nel consesso Ue come falco filo Bibi, con tanto di disastri diplomatici innescati dal commissario orbaniano Olivér Várhelyi (annunciò sui suoi social lo stop degli aiuti Ue ai palestinesi). Orbán in Ue dà prova costante di doppi standard: con l’unica coerenza dell’intesa tra illiberali, usa l’argomento della pace contro Kiev e dimentica la pace per il massacro a Gaza.
E Gaza sarà tra i temi discussi a Budapest. La versione in chiaro – quel che viene detto a The Times of Israel – è che «Netanyahu sta cercando di costruire una coalizione di paesi il più ampia possibile a sostegno dei piani di Trump per Gaza», che includono lo sfollamento forzato della popolazione della striscia e la ricostruzione “in stile resort”.
Ma la permanenza di Netanyahu è talmente prolungata (fino a domenica) da far ritenere plausibile a più di interlocutore ungherese esperto di sicurezza che in questi giorni possano svolgersi in realtà incontri riservati di una certa complessità: una delle ipotesi di cui si rumoreggia è che l’Ungheria possa essere terreno di incontro con l’Iran, che tra tutti i filoisraeliani si fida di Orbán più degli altri, anche per i suoi rapporti con Mosca.
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